Varco il cancello di Sant’Anna in una tiepida mattina di febbraio. Accompagnato da un ex manager di FS, oggi firma dell’Osservatore Romano, entro in un’altra città, ben più distante da Roma e dall’Italia dei pochi passi appena percorsi. Perché la sensazione, superato il filtro delle Guardie Svizzere e dei gendarmi vaticani, è di trovarsi in una dimensione quasi aliena, proiettato in un’atmosfera rarefatta ma densa di storia e spiritualità. Un po’ è suggestione, lo ammetto. Ma, da qui dentro, il mondo lo percepisci davvero con altri occhi. Me lo conferma Andrea Monda, da dicembre 2018 direttore dello storico quotidiano del Papa, fondato da due laici nove anni prima che le truppe di Vittorio Emanuele II, sfondate le Mura aureliane, invadessero Roma e decretassero la fine dello Stato Pontificio. «Ogni mattina varco il confine ed entro in un Paese straniero, da quel momento l’Italia scompare o comunque, da direttore del giornale, sono libero dal doverne parlare. L’Italia va nella pagina internazionale, ma soltanto se ci sono notizie che lo meritano. E, comunque, in mezzo a tante altre che arrivano da tutte le parti del mondo. Di fatto dirigere questo giornale mi ha sprovincializzato lo sguardo», mi spiega.


Servirebbe alla stragrande maggioranza dei nostri giornali e media, concentrati a tal punto sulle vicende nazionali da cadere in una sorta di strabismo autoreferenziale.
Ecco, quello che invece voglio contraddistingua il nostro quotidiano è raccontare i fatti e interrogarsi con uno sguardo da forestiero. È un’espressione che ho usato nel mio primo editoriale, scritto quasi di getto, il 20 dicembre 2018, ispirandomi a un passo del Vangelo secondo Luca, all’Episodio di Emmaus, quando Gesù risorto va incontro a due suoi discepoli che parlano di lui, della sua crocifissione. Discutono quindi della cronaca, però senza capire il senso di quell’avvenimento. Quando lui chiede di cosa stiano parlando, e fa finta di non sapere niente, loro si meravigliano che lui sia così forestiero da ignorare cosa sia accaduto. Ecco, io usavo questa immagine per dire cosa deve fare l’Osservatore Romano: entrare nelle conversazioni degli uomini per stare sul pezzo, per parlare del fatto del giorno, ma con lo sguardo di un forestiero. Capace di stupirsi ogni volta e poi sorprendere con un’interpretazione non banale o scontata.


In che senso?
Come quella di qualcuno che sia, appunto, un po’ fuori fase, come se vivesse da un’altra parte, del resto per un cristiano la vera patria non è questa ma quella celeste. Dobbiamo avere uno sguardo che ci consenta di cogliere il senso più profondo dei fatti, che altrimenti diventano solamente cronaca destinata ad accumularsi come sabbia in una clessidra, tutti i giorni, indifferentemente.

 

Voi avete anche un’altra sfasatura, quella temporale, perché rispetto alla quasi totalità degli altri quotidiani uscite nel pomeriggio…
Montini nel 1961, quando ancora non era Pontefice, scrisse un articolo per il centenario del giornale e lo chiamò «singolarissimo quotidiano», non paragonabile a nessun altro, e in effetti noi non assomigliamo agli altri giornali, finanche nell'orario di uscita. In passato, in Italia, c'erano altri quotidiani del pomeriggio o della sera, ma ormai siamo rimasti gli unici a uscire nel pomeriggio. In Francia, per esempio, come noi c'è Le Monde. Su questo punto abbiamo avviato una discussione, sebbene cambiare non sia facile. Cambiare in Vaticano non è mai facile. Comunque, questo orario di uscita ha i suoi vantaggi.

Come far decantare l’emotività rispetto ad alcune notizie? E trovare il tempo per approfondire con quello “sguardo forestiero”?
È così, è una necessita che sento come congenita. Comunque, se la copia stampata arriva tardi, il giornale si può leggere, in formato digitale, subito dopo il mio “visto si stampi”. In tutto il mondo, e gratis. Perché al Papa interessa la diffusione. Anche questa è un’altra singolarità, noi non siamo un’impresa commerciale, siamo un’altra cosa. A differenza degli altri quotidiani, qui da noi l’impresa coincide con la missione della Chiesa.

 

Insomma, il numero di copie vendute ha scarsa rilevanza...
Esatto, puntiamo più sulla qualità che sulla quantità: i nostri lettori sono infatti non tanti ma molto qualificati e sono sensibili e attenti. C’è l’intero corpo della Chiesa, dai Cardinali fino ai più lontani missionari che dall’Africa mandano le monetine raccolte per l’abbonamento, perché nel giornale sentono il loro legame con la cattedra di Pietro. L’Osservatore ha un’edizione settimanale in inglese, tedesco, francese, spagnolo, portoghese. E una mensile in polacco, inaugurata nel 1981, dopo tre anni di pontificato di Giovanni Paolo II. Per otto anni è entrata in Polonia e, pur sottoposta a censura, è stata la prima rivista straniera a farlo. Oggi siamo letti in tutte le sedi diplomatiche nel mondo e dai capi di Stato. Insomma, raggiungiamo uno spicchio di mondo estremamente qualificato e, soprattutto, grazie a Papa Francesco, destiamo molto interesse anche dal di fuori della cerchia della cattolicità.


In queste pagine abbiamo affrontato spesso il tema della sostenibilità finanziaria di un giornale, che per voi sembra non costituire un problema. Talvolta il tentativo di vendere più copie e guadagnarsi pubblicità spinge all’esasperata ricerca dello scoop o del titolo a effetto. Tu in un editoriale hai scritto che abbiamo perso il senso del limite, non ci assumiamo le conseguenze delle nostre azioni. Spiegaci meglio…
È così. È il tema della libertà disgiunta dalla responsabilità. Un tema sul quale mi sono soffermato, e ho voluto aprire un dibattito, coinvolgendo altri direttori e giornalisti. Ci siamo riuniti lo scorso 29 novembre in una tavola rotonda nella Sala Marconi a Palazzo Pio, per interrogarci su come svolgiamo il nostro lavoro. Perché con la libertà di stampa ci riempiamo la bocca, ed è giusto, è il segno della qualità di una democrazia, ma la responsabilità della stampa è altrettanto importante, perché la libertà priva della responsabilità può trasformarsi in qualcosa di molto pericoloso.


Tema delicatissimo, qualsiasi misura che esca dall’autodisciplina deontologica può essere tacciata di atto censorio
Io ho posto una questione quasi politica: in un sistema democratico ogni potere deve avere un bilanciamento, la stampa e l’informazione dovrebbero essere un servizio, ma di fatto sono un potere. E a chi rispondono? Chi li limita o controlla? Non possiamo cavarcela con l’autodisciplina, o con l’affidarci al giudizio dei lettori, che peraltro ci stanno penalizzando, offrendoci un monito di cui non possiamo non tener conto.


Vuoi dire che i lettori abbandonino i giornali perché nauseati dalla loro irresponsabilità?
C’è anche altro, certo, ma è un fatto innegabile che alcune notizie e il modo in cui si diffondono possono provocare danni enormi, sui quali dobbiamo interrogarci. Pensa a quando l’informazione tocca le inchieste giudiziarie e comunichiamo un avviso di garanzia…


Presentato e percepito già come una condanna…
Ecco, non è che io sia per il bavaglio all’informazione, ma altra cosa sarebbe, per esempio, se dessimo quella notizia se e quando si arriva almeno al rinvio a giudizio. Comunque la questione va posta, perché in alcuni casi i danni sono maggiori del servizio offerto. Tutti i giorni abbiamo casi che finiscono nel tritacarne di un fuoco incrociato tra magistratura e stampa. Così non va. Nella contiguità tra magistratura, inchieste giudiziarie e comunicazione c’è un nervo scoperto, ed è la carne viva della questione.


E dalla tavola rotonda cosa è emerso?
Riflessioni stimolanti su quanto sia fondamentale il rispetto verso le persone, il controllo, il senso del dovere e dei limiti, l'affidabilità. Non c’è libertà senza responsabilità. Ho pubblicato tutti gli interventi sul quotidiano dell’11 dicembre e si possono leggere anche online. Vorrei trasformare questo incontro in un appuntamento annuale e coinvolgere anche la stampa internazionale. Chi è intervenuto alla tavola rotonda si è messo in gioco, senza “fare accademia”, ma raccontando storie personali e ponendo quesiti concreti.


Per esempio?

Antonio Spadaro (direttore di Civiltà Cattolica, ndr) ha posto una domanda precisa: la famosa foto del cadavere di Aylan, il bambino annegato riverso su una spiaggia turca, in quanti l’avrebbero pubblicata? Io forse non l’avrei pubblicata. Cosa significa che i giornalisti devono dare la notizia? Sono esseri umani e, come tali, devono porsi anche questioni di tipo morale su ciò che è giusto fare o non fare.


In questo caso non tanto sul dare una notizia, ma su come darla…
Esatto. Vedo che quasi nessuno si pone la questione dei limiti. Ho apprezzato molto Monica Maggioni quando decise che non avrebbe mai mandato in onda i video dei terroristi che decapitavano i prigionieri. Ha fatto una cosa sacrosanta, ma è stata l’unica a dirlo esplicitamente. Per questo ho chiesto di aprire un osservatorio sulla qualità e le conseguenze di certe nostre scelte giornalistiche. E mi riferisco anche ai talk show televisivi, diventate una sorta di arena con tifoserie urlanti che fomentano l’odio e non promuovono alcun ragionamento, e al mondo dei social.


Che è quello della disintermediazione per eccellenza, dove in tanti credono di trovare la verità non edulcorata, elaborata, ma diretta. Ed entrano in gioco l’affidabilità, le relazioni…
Quello di internet è un mondo senza padri, dove la voce di chiunque diventa autorevole, con effetti deleteri ormai evidenti. Un mondo che prescinde dalla funzione di mediazione che è propria dei corpi intermedi. Un mondo dove siamo tutti commentatori e pensatori, dove l’incompetenza diventa quasi una virtù, un controsenso…ma questa non è più comunicazione. Il successo dei social è una propaggine di quella lotta all’élite che sta mostrando i suoi paradossi e la sua inconcludenza, per non dire peggio. Un degrado che ha contaminato persino il linguaggio della politica
Il Papa su questo ha avuto parole molto significative invitandoci a passare dalla cultura dell’aggettivo alla teologia del sostantivo. Ecco, anche la politica si è ridotta a una gara tra chi trova la migliore aggettivazione e risulta efficace nel breve periodo. Trasformandosi in marketing e lasciando indietro la sostanza, la persona, le storie individuali, da conoscere e, soprattutto, da rispettare.

Comunque il mondo dell’informazione è cambiato e i social sono una realtà dalla quale non può prescindere neanche il Papa…
È innegabile che Papa Francesco oggi sia, forse, il più grande comunicatore, capace e libero giustamente di muoversi in totale autonomia. E lo staff che deve curare la sua comunicazione è quindi coinvolto in maniera impegnativa.


Su Twitter ha milioni di follower.
E noi pubblichiamo i suoi tweet, interagiamo coordinandoci con il sito diVatican News. L’account Twitter Pontifex lo aveva avviato già Benedetto XVI, cogliendo la necessità di una comunicazione spedita e diretta. Francesco arriva e dopo due anni, prosegue su quella scia e avvia la riforma dei media vaticani. L’Osservatore Romano, prima della radio unico strumento di informazione, è stato affiancato negli anni dalla televisione e poi da tutto ciò che è il digitale. Serve un coordinamento. Francesco istituisce così un dicastero ad hoc e lo affida prima a don Dario Viganò e poi a Paolo Ruffini. Una piccola, ma neanche tanto piccola, rivoluzione, perché chiama a guidarlo un laico, grande esperto di comunicazione.


Perché ormai dalla multimedialità non si può più prescindere, la carta, da sola, è ormai un retaggio del passato.
Appunto, e la riforma voluta da Francesco ne tiene conto, il nuovo dicastero ha il compito di creare un’adeguata integrazione tra i nostri mass media: la radio, il centro televisivo vaticano, l’Osservatore Romano e tutto ciò che adesso è rete. Noi direttori ci incontriamo in riunioni periodiche settimanali il lunedì pomeriggio, nell’ordinarietà. E ogni volta si presentino momenti più delicati che necessitano di un efficace coordinamento.


Ma il Papa, il tuo editore, è contento del giornale?
Qualche tempo fa mi ha avvicinato e mi ha detto: «Io ho un problema». Preoccupato gli ho chiesto: «Quale, Santo Padre?». «Ogni giorno perdo un’ora del mio tempo per leggere l’Osservatore Romano». Poi mi ha chiesto: «Lei fa un giornale di alto livello, è in grado di mantenerlo?». E io: «Ci proviamo». Con il suo sottile umorismo, ma mi è parso un bell'apprezzamento, giusto?