A distanza di 16 anni dall’iconico romanzo La strada, pubblicato nel 2006 e vincitore del Premio Pulitzer per la narrativa nel 2007, è uscito negli Stati Uniti Stella Maris di Cormac McCarthy, arrivato adesso in Italia.

Un romanzo intimo e duro quello del titano della letteratura americana, scomparso a giugno del 2023, che prende il titolo dalla clinica psichiatrica Stella Maris nel Wisconsin.

Qui la ventenne Alicia si ricovera volontariamente, non per farsi curare ma perché non ha «nessun altro posto dove andare».

Verso gli psichiatri prova una profonda diffidenza. A loro rimprovera prima di tutto «la mancanza d’immaginazione».

Alicia è una matematica con una grande passione per la musica, laureata a 16 anni e dottoranda esperta della teoria dei topoi, strumenti efficaci nel mettere in relazione tra loro teorie differenti: «Un altro universo. […] un posto da dove puoi voltarti a guardare il mondo dal nulla», dice.

È un caso clinico difficile il suo: da una parte una mente vorace, un’intelligenza fuori dal comune, con un quoziente non testabile; dall’altra un’anima fragile e una sofferenza profonda.

«Se non fosse diventata una matematica cosa le sarebbe piaciuto essere? Morta». Le diagnosi psichiatriche per Alicia sono state plurime – sociopatia, anoressia, autismo, schizofrenia paranoide – e non risolutive.

 

La situazione è grave, le cure difficili, soprattutto perché il desiderio di morire in lei è così intensamente radicato da eclissare qualsiasi forma di pensiero logico.

Il racconto, che è quasi una pièce teatrale, è scritto interamente sotto forma di dialogo tra la protagonista e il dottor Cohen, il medico che la prende in carico.

 

Sebbene Alicia non creda nelle parole – «L’intelligenza sono i numeri [...]. Le parole sono cose inventate» – dal corpo a corpo verbale col dottore emergono gradualmente frammenti e figure del passato: il fratello Bobby ricoverato in un ospedale italiano, il padre scienziato coinvolto nella creazione della bomba atomica o i personaggi «presumibilmente inesistenti» che la visitano fin da bambina.

 

Le conversazioni toccano temi altissimi, dalla filosofia all’epistemologia, dalla meccanica quantistica alla teoria musicale. Durante i colloqui vengono citati, con la familiarità con cui si parla di care conoscenze, il matematico Alexander Grothendieck, i filosofi Ludwig Wittgenstein e Arthur Schopenhauer, il fisico Richard Feynman e una variegata schiera di altri celebri pensatori.

Ed è addentrandosi nei meandri di concetti matematici, filosofici, musicali che Alicia riesce a creare un varco fugace, una parvenza di contatto umano, e a spingersi fino a rivelare un segreto indicibile.

 

La scrittura di McCarthy è tesa, profonda, dolorosa: pochi gli spiragli di luce.

Il romanzo, uscito insieme al penultimo libro dello scrittore americano, Il passeggero, di cui riprende le vicende e i personaggi e con cui compone un dittico ideale, segna il canto del cigno di un autore straordinario, la cui fiamma continuerà a brillare nel tempo.

 

Il mondo

Vuole davvero entrare nel merito?

Non so bene nel merito di cosa. Che a questo mondo la gioia scarseggi non è solo un punto di vista. Ogni gesto benevolo è sospetto. Finché non capisci che il mondo non ha in mente te. Né ti ci ha mai avuto.

La gente perlopiù riesce a trascorrere i giorni che le sono stati assegnati in qualcosa che non sia uno stato di disperazione.

Sì. Loro ci riescono.

Se dovesse dire qualcosa di definitivo sul mondo in una sola frase cosa sarebbe?

Sarebbe questo: Il mondo non ha creato un solo essere vivente che non intenda distruggere.

Suppongo sia vero. Ma quindi? È tutto qui quel che il mondo ha in mente?

Se il mondo ha una mente allora è anche peggio di quello che pensavamo. [...]

 

Stella Maris

Si sente al suo posto qui? Alla Stella Maris?

No. Ma questo non risponde alla domanda. L’unica entità sociale di cui io abbia mai fatto parte era il mondo della matematica.

Ho sempre saputo che il mio posto era quello. Credevo addirittura che avesse precedenza sull’universo. E lo credo ancora.

Precedenza sull’universo. Sì. Non si sta divertendo con me. Non molto.

Intendevo nel senso di prendermi in giro. So in che senso intendeva. Forse mi stupisce solo che possa sentirsi a casa in una struttura psichiatrica. Non so se sia questione di essere a casa. Forse è solo questione

di approfittare della libertà d’azione accordata ai matti. [...]

 

Il violino

Io e mio fratello avevamo ereditato del denaro dalla nostra nonna paterna. Quando lui mi ha dato la mia parte non c’era qualcosa che volessi in particolare. Così ho comprato quell’Amati abbastanza straordinario. Conoscevo lo strumento. L’avevo visto in due libri e naturalmente nel catalogo di Christie’s. L’ultima volta che l’avevano venduto era il 1863 e mi sono detta che non sarebbe tornato sul mercato a breve. Un violino. Sì.

Quanto costano i violini di cui stiamo parlando? Io l’ho pagato un pochino di più di duecentomila dollari. Però. Quanti soldi aveva ereditato?

La mia parte era qualcosa di più di mezzo milione di dollari. Ho pensato che il violino fosse una buona idea. Anche se certo, lasciarlo nella mia camera mi preoccupava. Di norma lo tenevo sotto il cuscino. Per un po’ ho addirittura tenuto i soldi in una scatola da scarpe nell’armadio.

Era denaro in contanti? Sì. Quando mio fratello l’ha scoperto mi ha obbligata ad affittare una cassetta di sicurezza.

Non ha pensato di investirlo? Erano soldi ereditati e non dovevamo pagarci nessuna tassa.

Ma non potevamo dimostrarlo. Erano sotterrati nella cantina di mia nonna. È stata lei a dirci dov’erano e che erano destinati a noi. Ma naturalmente non risultavano su nessun documento. Aveva sotterrato i soldi in cantina.

Ci aveva pensato nostro nonno. Erano monete d’oro da venti dollari.

Impilate in segmenti di tubo di piombo. Questa storia sta prendendo una piega piuttosto curiosa. La gente fa cose curiose. [...]

Quando sono arrivata a casa mi sono seduta sul letto con la custodia sulle gambe e l’ho aperta. L’odore di un violino vecchio di trecento anni non assomiglia a nessun altro. Ho pizzicato le corde ed era sorprendentemente intimo. L’ho tolto dalla custodia e mi sono messa ad accordarlo. Mi chiedevo dove gli italiani fossero andati a prendere del legno d’ebano. Per i bischeri. E per la tastiera, naturalmente. La cordiera. Ho tirato fuori l’archetto. Fabbricato in Germania. Splendidi intarsi d’avorio. L’ho teso e poi ho semplicemente iniziato a suonare la Ciaccona di Bach.

In re minore? Non ricordo. Un brano così crudo, tormentoso. L’aveva composto per sua moglie, morta mentre lui era lontano. Ma non sono riuscita ad arrivare in fondo.

Come mai?

Perché mi sono messa a piangere. Mi sono messa a piangere e non riuscivo a fermarmi.

Perché piangeva? Perché piange?

Mi scusi. Per più motivi di quanti potrei dirle. Ricordo di aver asciugato le lacrime dal legno di abete e di aver messo da parte l’Amati e di essere andata in bagno a sciacquarmi la faccia. Ma il pianto è tornato. Continuavo a pensare al verso: Che capolavoro è l’uomo. Non riuscivo a smettere di piangere.

E ricordo di aver detto: Cosa siamo? Seduta lì sul letto con l’Amati tra le mani, talmente bello da sembrare irreale. Era la cosa più bella che avessi mai visto e non riuscivo a capire come una simile cosa fosse anche solo possibile.

Vuole fermarsi?

Sì. Mi scusi. [...]

 

Il padre, il fratello

Io posso solo dirle che mi piacciono i numeri. Mi piacciono le loro forme e i loro colori e gli odori e il sapore che hanno. E non mi piace credere alla gente sulla parola. Alla fine durante gli ultimi mesi della malattia di mia madre, mio padre con noi ci è stato. Aveva uno studio nell’affumicatoio sul retro. Aveva fatto un grande buco quadrato nel muro e ci aveva montato una finestra così da poter guardar fuori i campi e il torrente più in là. La sua scrivania era una porta di legno poggiata su due cavalletti e c’era un vecchio divano di pelle imbottito di crine di cavallo. Era tutto incartapecorito e crepato con i crini di cavallo che fuoriuscivano ma lui ci ha buttato sopra una coperta. Un giorno sono entrata e mi sono seduta alla sua scrivania e ho guardato il problema a cui stava lavorando. Sapevo già qualcosa di matematica. Più che qualcosa, in realtà.

Ho cercato di decifrare gli appunti ma era difficile. Adoravo le equazioni. Adoravo i sigma maiuscoli delle sommatorie. Adoravo

la narrazione che veniva sviluppata. È arrivato mio padre e mi ha trovata lì e ho pensato che ero nei guai e sono scattata in piedi ma lui mi ha presa per mano e mi ha riportata alla sedia e mi ha fatta sedere e ha riesaminato il problema con me. Le sue spiegazioni erano chiare. Semplici. Ma non solo. Erano piene di metafore. Ha disegnato un paio di diagrammi di Feynman e io ho pensato che erano abbastanza fichi. Mappavano il mondo delle particelle subatomiche che mio padre stava cercando di spiegare. Le collisioni. I cammini pesati. Ho capito – capito davvero – che le equazioni non erano un’ipotesi della forma la cui vita era relegata nei simboli che le descrivevano sulla pagina ma che erano lì davanti ai miei occhi. A tutti gli effetti. Erano negli appunti, nell’inchiostro, dentro di me. Nell’universo. La loro invisibilità non avrebbe mai potuto confutare né loro né la loro esistenza. O la loro età. Che era l’età della realtà stessa. Che a sua volta era ed era sempre stata invisibile. Non ha mai mollato la mia mano.

Sta bene?

Sì. Mi scusi.

Vuole un’altra sigaretta?

No. Non mi piacciono nemmeno. Fermiamoci.

Va bene. Posso chiederle una cosa?

Certo.

Solo qualche ricordo di suo fratello. Mio fratello.

Sì. Oddio. Va bene. La casa al mare nella Carolina del Nord. Quando mi sono alzata la mattina e sono andata in camera sua lui era già uscito e io ho preparato un thermos di tè e sono scesa in spiaggia al buio e lui era lì seduto sulla sabbia e abbiamo bevuto il tè aspettando il sole. Attraverso gli occhiali scuri l’abbiamo guardato salire rosso e grondante dal mare.

La sera prima avevamo camminato sulla spiaggia e c’erano una luna e una finta luna che attraversavano gli anelli luminosi e noi avevamo ragionato del paraselenio e io avevo detto che parlare di cose composte di sola luce quali sono quelle descrivendole come problematiche o magari viste se non addirittura conosciute in modo distorto o come cose di discutibile realtà mi era sempre sembrato un po’ un tradimento. Lui mi aveva guardata e aveva detto tradimento? E io avevo detto sì. Cose composte di luce. Bisognose della nostra protezione. Poi la mattina ci siamo seduti sulla sabbia a bere il nostro tè e a guardar spuntare il sole. [...]

 

La matematica

Qualcuno una volta ha detto che la materia prima dell’arte è il dolore.

Vale anche per la musica?

Non lo so. Non ho mai composto musica. Ma direi che potrebbe.

E la matematica?

La matematica è tutto sudore e fatica. Magari fosse romantica. Non lo è. Nei momenti peggiori ti arrivano dei suggerimenti uditivi. Difficile tenere il passo. Non osi dormire e se anche sei in piedi da due giorni pazienza. Ti ritrovi a prendere una decisione solo per trovarne altre due in attesa e poi quattro e poi otto. Devi importi di fermarti e tornare indietro. Ricominciare.

Non insegui la bellezza, insegui la semplicità. La bellezza viene dopo. Dopo che ti sei ridotto un rottame.

Ne vale la pena?

Come nient’altro al mondo. [...]

 

Articolo tratto da La Freccia di gennaio 2024