La Biennale di Venezia - Ca' Giustinian © Max Ferrero/AdobeStock

Roberto Cicutto, classe 1948, nasce e vive a Venezia, che lascia dopo aver conseguito la maturità classica al Liceo Marco Polo. A Roma intraprende una carriera cinematografica costellata di successi, tra la distribuzione e la produzione di film diretti dai più rappresentativi registi italiani e stranieri. Nel 2009 diventa direttore del Mercato internazionale del film. Per alcuni anni è membro del consiglio di Ace (Atelier du Cinéma Européen), Efa (European Film Academy) e del Centro sperimentale di cinematografia. Dal 2009 al 2020 ricopre la carica di presidente e amministratore delegato di Istituto Luce - Cinecittà srl. Poi, a marzo 2020, arriva la nomina a presidente della Biennale di Venezia. In questa sua veste, al timone di una delle più importanti istituzioni culturali italiane, ecco la nostra intervista esclusiva.

Cosa le viene in mente quando pensa a Venezia?

Un luogo fragilissimo e meraviglioso che regala al mondo la possibilità di “studiarlo” come in un laboratorio a cielo aperto, unico per quanto riguarda la sostenibilità, il turismo rispettoso, la conservazione di patrimoni artistici inestimabili, che offre le migliori condizioni per la ricerca su questi temi nella collaborazione fra istituzioni antiche che hanno saputo rinnovarsi e stare al passo con i tempi.

 

In quali condizioni trova oggi la Laguna?

Se ricordo la città della mia infanzia, negli anni ‘60, l’immagine di Venezia è sicuramente migliore. Mi sembrano diminuite le zone fatiscenti e il recupero degli edifici storici è molto più esteso. Questa è la prima impressione. Poi ci sono tutte le altre questioni, dall’acqua alta all’inquinamento, da uno sviluppo economico basato in gran parte sul turismo a un commercio massificato di qualità non eccellente.

Roberto Cicutto © Andrea Avezzu Courtesy La Biennale di Venezia

Quale sarà la linea della sua presidenza della Biennale?
Se conto il numero di giorni dalla mia nomina in cui sono stato a Venezia, mi accorgo che si tratta di poche decine. Colpa della pandemia. Quindi è una domanda prematura, non perché non abbia delle idee, ma perché prima di annunciarle vorrei verificare la loro fattibilità e validità. Certo, come ho sempre fatto in tutta la mia vita, cercherò di mettere in stretta relazione tutto quanto la Biennale può produrre. In particolare, un costante dialogo fra le arti che la compongono senza mettere in discussione il core business delle sue mostre e festival, che devono essere i punti di partenza per un’attività feconda di spunti, che facciano della Biennale e di Venezia un luogo di eccellenza per la ricerca nel campo delle arti contemporanee, per dare concreti contenuti allo slogan spesso abusato “l’arte può cambiare il mondo”.

Cosa ha più apprezzato dell'attività svolta dal suo predecessore Paolo Baratta?

Tutto. La sua capacità di formare una macchina perfetta, fatta di donne e uomini motivati e concentrati in quello che fanno, la qualità e il successo in termini di presenze in arte, architettura, cinema, teatro, musica e danza. E soprattutto il valore enorme delle attività di Biennale College in termini formativi, stimolo per gli stessi insegnanti a porsi interrogativi in un’ottica di rinnovamento.

 

Quali elementi di discontinuità e novità ha intenzione di introdurre?

La mostra Le muse inquiete. La Biennale di fronte alla storia è un primo passo di quello che intendo per dialogo fra le arti. Per la prima volta un’esposizione è stata curata da tutti e sei i direttori artistici della Biennale in carica. Dobbiamo fare in modo che le arti non si chiudano ognuna nel proprio settore di competenza o si limitino a organizzare splendidi eventi.

Il post Covid-19 può essere un’opportunità per ripensare le strategie turistiche di Venezia. Come dovrebbero cambiare, a suo avviso?

Non azzardo suggerimenti in materie che conosco superficialmente. Ma temo molto che, dopo le buone intenzioni espresse nel momento della crisi, le difficoltà economiche e l’insufficienza di misure a sostegno delle persone e dell’economia cittadina facciano prevalere la logica del ricavare il massimo possibile nel più breve tempo possibile. Sarà compito della politica, degli operatori industriali, delle istituzioni culturali, della scuola e dell’università affrontare i temi concreti, mettendo al centro le alternative possibili per un futuro più sostenibile.

A quale tipologia di turista si dovrebbe rivolgere la città?

Non posso immaginare che vengano escluse fasce di popolazione. Forse bisogna guardare al turismo come a un elemento fondamentale di sviluppo, capace di accogliere tipologie di visitatori molto diverse fra loro, consentendo in modo sostenibile percorsi diversi. Bisogna riuscire a diffondere una consapevolezza: chi viene a Venezia entra in un luogo straordinario e fragile, che chiede rispetto per poter restituire a tutti la sua straordinaria ricchezza. Credo che a fianco di un turismo per vedere, si debba sviluppare una forte capacità di attrazione per ripopolare la città di persone, società e istituzioni che possano trovare qui il posto migliore per svolgere le loro attività. Penso a residenze per studiosi e ricercatori, studenti e formatori. Attività in grado di autosostenersi anche economicamente, aprendosi a istituzioni nazionali e internazionali su progetti concreti.

A suo avviso l’Italia ha peso nel panorama culturale globale?

Non c’è nessuno che non voglia venire nel nostro Paese. Tutto il mondo conosce le sue bellezze paesaggistiche e artistiche (ci metterei anche il cibo). Si tratta di sapere accogliere chi può e riesce a venire, fornendo una preparazione anche minima attraverso tutti i canali a disposizione, perché ognuno possa scegliere il proprio “viaggio in Italia”, contribuendo a decongestionare i percorsi più frequentati. Ma il peso culturale del nostro Paese non può essere solo un fattore di incremento del turismo. Abbiamo una rete importante di istituti di cultura che sono sottofinanziati e non possono fare tutto quello che potrebbero. Abbiamo scuole di italiano all’estero che devono interloquire non solo con il ministero di riferimento, ma anche con istituzioni che mettano a disposizione della didattica i propri patrimoni archivistici. Le nuove tecnologie possono aiutare moltissimo. Direi, quindi, che abbiamo un’offerta fortissima che non è ancora sostenuta, per quanto merita, in modo continuativo.

Non trova che l’internazionalizzazione delle eccellenze artistiche sia uno dei talloni d’Achille del nostro sistema culturale?

Non sono d’accordo. Se si parla di cinema, la nostra presenza nei principali festival internazionali è da almeno due decadi molto aumentata e riconosciuta con premi prestigiosi. Le mostre su Pompei sono state fra le più frequentate a Londra e in altri luoghi. L’arte contemporanea italiana è fortemente rappresentata nei principali musei del mondo. Forse non lo comunichiamo abbastanza, ma abbiamo più direttori di festival e musei prestigiosi all’estero di qualsiasi altro Paese. E potrei continuare con la musica classica e leggera o l’architettura. Non sottovaluterei anche il peso delle nostre arti applicate nel design e nell’architettura, senza scordare la moda o il cibo di qualità.

 

Nelle task-force governative messe in campo per ricostruire l’Italia del post Covid-19 non c’è stato neppure un artista o un architetto. Quale ruolo pensa che possa avere la cultura per il rilancio del Paese?

È una vecchia storia. Quando ci sono le emergenze la cultura sembra un lusso e, invece, può dare più di tanti tecnici una visione concreta e complessiva delle urgenze mondiali.

Il settore culturale, come tutti gli altri, è uscito massacrato dagli effetti della pandemia. Se lei avesse partecipato agli Stati Generali indetti dal governo, quali richieste concrete avrebbe fatto per sostenerlo?

Avrei prima di tutto cercato di fare un censimento degli invisibili. Tutti quei lavoratori nel mondo delle attività culturali che non hanno ammortizzatori sociali e vivono di precariato. Decine di migliaia di persone che non si vedono davanti alla cinepresa o sul palco di un teatro, ma hanno lavorato agli allestimenti delle mostre o al montaggio delle strutture per gli spettacoli dal vivo. Poi avrei fatto un censimento delle principali istituzioni che il mondo ci invidia per i tesori che contengono, la qualità delle loro orchestre o l’eccellenza formativa, con l’obiettivo di tentare tutti assieme di costruire un Erasmus delle arti, attuando scambi con istituzioni analoghe nel resto del mondo per accogliere i loro giovani e dare ai nostri una prospettiva internazionale. Ma tutto questo si infrange contro il muro dell’emergenza che come l’acqua alta sommerge tutto e quando si ritira il problema rimane.

 

Quale sarà il suo contributo come Presidente della Biennale per il sostegno e il rilancio del settore?

Diffondere la consapevolezza che le arti contemporanee sono esattamente come le discipline scientifiche. Bisogna dotarsi di infrastrutture, progetti internazionali in collaborazione con altre istituzioni, formare i ricercatori, istituire laboratori sul campo per raggiungere risultati concreti che scavino dove si possono trovare tesori sconosciuti, nuove tendenze, relazioni finora inimmaginabili per conoscere meglio il mondo e, possibilmente, starci dentro con tutto il peso della creatività.

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