In cover e all'interno, photo © Consorzio produttori antiche acetaie
Le molteplici declinazioni del saper fare italiano sono protagoniste aExpo 2020 Dubai, in una serie di monografie in bianco e nero a firma del regista Gabriele Salvatores proiettate nel Padiglione Italia. Un viaggio tra le regioni compiuto dal premio Oscar per celebrare le capacità manifatturiere e la maestria artigianale dei suoi abitanti. Come quelle tipiche dell’Emilia-Romagna con le sue acetaie, custodi della produzione di aceto balsamico tradizionale. È infatti in questi antichi luoghi che il mosto, grazie a un ammaliante processo dettato da storia e tradizione, si trasforma nel nettare scuro e agro dolce così richiesto anche oltreoceano. Ottenuto pigiando a cielo aperto le uve tipiche modenesi e poi cotto a fuoco diretto, viene conservato in acetaia nelle batterie, una serie di botti con dimensioni a scalare (circa 20-30% in meno).
Esperienza e pazienza sono ingredienti fondamentali, soprattutto se si parla dell’Aceto balsamico tradizionale di Modena Dop, le cui particolarità si esprimono nel lento invecchiamento del prodotto, garantito e certificato nei due unici formati di minimo 12 anni e di oltre 25. Fortemente intrecciata con le storie familiari, visto che il mosto viene custodito dagli artigiani nei sottotetti delle proprie abitazioni, questa produzione ha bisogno di passione e attesa.
L’assaggio dell’Aceto balsamico tradizionale di Modena Dop all’Acetaia Meloria, in un frame tratto dal filmato di Gabriele Salvatores per Expo 2020 Dubai © Indiana Productions/Gabriele Salvatores per ItalyExpo2020
Per una prima messa in commercio, infatti, occorre attendere almeno 12 anni, durante i quali l’operazione più importante è il rincalzo: una volta all’anno, si mantiene un livello costante di aceto nei barili reintegrando quello che nel frattempo si è addensato, quindi ristretto, con una quantità prelevata dalla botte precedente e più capiente. Solo al tredicesimo anno questa specialità si può certificare e vendere come balsamico tradizionale Dop che, a seconda del legno del barile che lo ha ospitato, avrà caratteristiche aromatiche diverse. E qui bisogna ringraziare il saper fare italiano portato avanti dai mastri bottai.
Già nel 1508, alla corte del duca Alfonso I d’Este, marito di Lucrezia Borgia, risulta una produzione di aceto, definito poi “balsamico” nel 1747 sul registro delle vendemmie e delle vendite dei vini per conto delle Cantine segrete ducali. Documenti del XVI secolo riferiscono di mosti ben maturi utilizzati per l’aceto balsamico alla modenese e di rincalzi dei 36 barili custoditi nel terzo torrione del Palazzo Ducale.
«Le botticelle vengono lasciate in eredità da una generazione all’altra. Tradizione vuole che alla nascita di una figlia si dia avvio a una batteria in modo che, al 25esimo anno, l’aceto sia pronto e la ragazza, in età da marito, possa portare in dote i barili insieme al corredo», racconta Mario Gambigliani Zoccoli, presidente del Consorzio produttori antiche acetaie - Aceto balsamico tradizionale di Modena Dop. «Così mio padre allestì una serie da sei barili», prosegue, «per ognuno dei cinque nipoti che desiderava da noi cinque figli. Quando negli anni ‘80 l’aceto iniziò a essere appetibile sul mercato, quello che pensavamo fosse significativo solo per la storia familiare diventava un valore di mercato: nel 1992 nel fienile avevamo già ben 1.300 barili, che nel 2018 hanno compiuto almeno 25 anni».
Abitualmente, infatti, le acetaie si trovano nei fienili e nei sottotetti delle case, delle ville storiche di famiglia, dei casali di campagna: contesti evocativi che rendono l’idea della peculiarità di questo «artigianato agricolo», come lo definisce Gambigliani Zoccoli, in cui «non c’è aceto negli ingredienti ma una sola materia prima, il mosto di uva cotto, unito a un secondo impalpabile ingrediente, il tempo». E alla bravura dell’esperto, ovviamente.
«Gli anni sono una condizione necessaria ma non sufficiente: come per l’uomo, diventare adulti non sempre significa diventare maturi», ama ripetere il presidente del Consorzio. Avere così tanto tempo per riflettere sulle migliori tecniche pare aver reso molto lungimiranti i produttori che, ben prima di ottenere nel 2000 la denominazione di origine protetta, nel 1987 avevano incaricato il designer Giorgetto Giugiaro di progettare un contenitore unico. Esempio di creatività e innovazione, l’ampolla da 100 ml è uguale per tutti i consorziati, in quanto segno distintivo dell’Aceto balsamico tradizionale di Modena Dop, che già all’epoca subiva i danni della contraffazione.
Nonostante le perdite causate dalle imitazioni, si è creata una sinergia tra il balsamico tradizionale Dop e il prodotto Igp più giovane e commerciale facilmente reperibile all’estero. Che funziona da attrattore: il viaggiatore straniero in Italia viene mandato in acetaia e ne esce conquistato.
Modena è divenuta capitale mondiale dell’aceto balsamico anche per la grande diffusione del prodotto Igp e per l’interesse verso un turismo gastronomico diretto alle acetaie tradizionali, le cui visite consentono ai produttori il raggiungimento di una marginalità che altrimenti si perderebbe lungo la filiera distributiva: un elemento importante di marketing territoriale per il Consorzio produttori antiche acetaie.
Tappa enogastronomica della food valley, fino a 25 anni fa Modena viveva un turismo legato solo alla Ferrari: oggi, invece, la promozione passa per le acetaie e il loro genius loci. Per trasferire queste abilità, normalmente ci si affida alla persona più esperta di famiglia, che in genere è la più anziana: è un’attività che si impara per affiancamento, pian piano, nel corso degli anni. Come fa presente Gambigliani Zoccoli, per l’aceto balsamico vengono usati vitigni modenesi gestiti per ottenere vini tipici: una cultura ampia e radicata che non va persa facilmente.
Difficile è invece quando, anziché vinificare, si deve cuocere il mosto, farlo fermentare, gestire la parte prettamente balsamica: «Dalla coltivazione della vite i produttori di vino e aceto condividono un percorso che si separa all’ottenimento del mosto: per chi produce vino l’acidificazione è una degenerazione della filiera produttiva mentre per noi ne è la summa».
Infine, ulteriore dimostrazione dell’italico saper fare, se Modena può essere famosa per il Lambrusco lo è certamente meno per il Trebbiano, un vino quotidiano da pasto le cui uve fanno più fatica a trovare mercato ma, essendo un po’ meno tanniche, con grado zuccherino leggermente superiore e più aromatiche, si sono rivelate fondamentali per l’aceto. A differenza del Lambrusco quindi, che trova un normale canale commerciale nella vinificazione, si è potuto sfruttare uve che in un’ottica di profitto avrebbero potuto essere sostituite e che invece ripagano il territorio con questo gioiello nero.
Articolo tratto da La Freccia
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