Geopandemia. Decifrare e rappresentare il caos è un titolo che racchiude in poche parole un concetto evocativo e di comprovata attualità a livello globale. La diffusione del Covid-19 ha messo a dura prova i già precari equilibri tra le nazioni e le situazioni sociali al loro stesso interno. È quanto emerge da un’attenta analisi del suo autore - Salvatore Santangelo - giornalista e docente universitario, esperto di geopolitica a cui si deve il merito di aver proposto e mediatizzato questo termine.

 

Geopandemia, perché questo titolo?

Con il collega Gabriele Natalizia ho proposto questo concetto nelle settimane più drammatiche della prima crisi pandemica, commentando come, con l’arrivo - nel nostro Paese - dei tanto pubblicizzati aiuti cinesi, russi e persino cubani, assieme alla dimensione sanitaria si fossero messe in moto altre dinamiche: narrative, geopolitiche, di biopolitica e di biocrazia. Questi fenomeni sono oggi globali. Mi sembra che un termine “denso” come “geopandemia” sia in grado di riassumerli tutti, efficacemente.

Tra i soggetti principali ci sono quelle che Niall Ferguson chiama le “nazioni colosso” contrapposte come Usa e Cina?

La globalizzazione che abbiamo conosciuto abbraccia un periodo di circa 40 anni ed è a trazione sino-americana. Ritengo che il punto di svolta della Guerra Fredda sia stato determinato dalla capacità di Nixon e Kissinger di comprendere che riappacificarsi con Pechino sarebbe stato cruciale per amplificare le profonde faglie che dividevano la Cina dall’Urss, isolando quest’ultima. La rottura del moloch comunista e la svolta economica impressa da Deng Xiaoping hanno aperto la strada al questa globalizzazione, che ha trasformato la Cina in un nuovo protagonista (revisionista) dell’ordine mondiale.

 

La mondializzazione è stata plasmata dai capitali e dall’ideologia statunitense e dall’industria cinese, sulla base di un’alleanza pagata comunque a duro prezzo dagli Usa che - nel medio periodo - hanno sacrificato sull’altare del primato geopolitico il proprio ceto medio e segmenti importanti della propria industria nazionale. Date queste premesse dobbiamo chiederci: queste nazioni-continenti sono necessariamente destinati a confliggere, a cedere a quella che viene definita la Trappola di Tucidide? Proviamo a riassumere alcune traiettorie strategiche delle ultime presidenze statunitensi: per implementare la sua strategia - Pivot to Asia -, nel tentativo di disincagliare gli Usa dal pantano mediorientale, senza lasciare un vuoto di potere, Barack Obama ha giocato una partita per riportare l’Iran nel consesso internazionale e favorire - con le primavere arabe - l’arrivo al potere dei Fratelli mussulmani. Trump ha proseguito e inasprito il confronto con i cinesi, ma nel Medioriente ha cambiato interlocutori: la monarchia saudita e Israele (vero epicentro della rivoluzione sovranista); gli “accordi di Abramo” come tentativo di isolare definitivamente l’Iran, respingere i Fratelli mussulmani e contemporaneamente contenere la Via della Seta.

 

Per quanto riguarda Biden mi sembra di leggere questo capovolgimento: certamente (a differenza di Obama) un forte sostegno all’asse Ryad-Tel Aviv, (a differenza di Trump) una nuova escalation nei confronti della Russia e un sostanziale rilassamento delle tensioni con la Cina. 

E i cinesi?

L’approccio Pivot to East Asia, adottato nel 2012 - come dicevamo - da Obama e sistematicamente implementato da Trump, ha generato certamente l’effetto di contrastare l’influenza cinese, ma allo stesso tempo ha consolidato l’idea che la Cina ha di sé come potenza in grado di sfidare gli Usa. Quindi, più che vittima di una sindrome d’accerchiamento Pechino si sentirebbe ancora più legittimata nell’incrementare la propria forza militare e nell’espandere la propria area di influenza verso il resto del mondo.

 

Comunque - a mio avviso - i cinesi, ancor più dopo la crisi da Covid-19, guardano con seria preoccupazione al modello occidentale, e non sono più così sicuri di poter competere almeno in questo campo di gioco. Hanno molti dubbi. E quando si dice che cercano l’egemonia globale, mi sembra invece che emergano loro pesanti perplessità sui costi di un’eventuale transizione e sostituzione della potenza egemone, oltre che sulla tenuta del proprio fronte interno che presenta più di una criticità. Il confronto Stati Uniti-Cina per Pechino dovrebbe restare nella cornice di una gara di resistenza, perché i cinesi hanno la convinzione che, a medio o lungo termine, gli Usa saranno costretti a retrocedere. Quindi la loro crescita sarebbe il riflesso della decadenza statunitense. Sembrano in questo senso aver appreso la lezione messa in luce dal già citato Ferguson nel suo provocatorio saggio dall’esplicito titolo Decline and Fall: a una repentina caduta dell’avversario che potrebbe portare a una stagione di caos e pericolosa instabilità, preferirebbero il suo lento logoramento. 

 

E la Russia quale posto occupa in questo scacchiere?

Putin appare una figura aliena rispetto a questo ordine globale. Tra le varie letture che si possono dare, vi è sicuramente il rigetto da parte dell’Occidente di un uomo che fin dall’inizio ha corretto la traiettoria politica di Boris Eltsin. Vi è poi il dato dell’ideologia putiniana, antitetica a quella globalista ancor più di quanto lo sia quella cinese. Xi Jinping a Davos disse infatti che la «globalizzazione è il grande oceano da cui non ci si può ritirare» (almeno per ora, visto il suo approccio pragmatico e post-ideologico).

 

Nel libro viene ricordato lo sbattere delle ali della farfalla, che può provocare suo malgrado conseguenze amplificate e poco controllabili. Sta succedendo anche nel caso della propagazione del Covid-19?  

Nel contesto internazionale che stiamo provando a decifrare, il Covid è un acceleratore di processi: basti pensare alla transizione verso il digitale, ai nuovi modelli di produzione, commercio, interazione e controllo sociale. Con tutte le implicazioni del caso: vediamo come il modello distopico della Cina abbia piegato il virus, mentre i Paesi liberali e soprattutto quelli guidati dai “sovranisti” (Trump, Bolsonaro e Johnson), siano stati travolti dalla pandemia (o almeno dalla narrazione sui loro presunti fallimenti). Il Covid ha un forte legame col fattore tempo, dato che in tanti contesti ci pone di fronte alla realizzazione di cambiamenti strutturali che sarebbero comunque avvenuti, ma in un lasso temporale più dilatato.

 

Per decifrare e rappresentare il caos, citando il tuo sottotitolo, quali strategie vanno applicate, nell’era della globalizzazione?

Nella mia visione, la dinamica storica oscilla tra alternanti fasi di apertura e di chiusura. In questo senso non esiste una sola globalizzazione, ma possiamo riconoscere momenti globali, post-globali e anti-globali. La particolarità della nostra contemporaneità, risiede nel fatto che il tempo-mondo che stiamo vivendo - per la prima volta nella storia - si identifica con la sincronizzazione di questi diversi momenti. In questo senso, il Covid ci costringe a fare i conti con ciò che è eterno, costante nella dimensione umana, come accaduto anche con le grandi pandemie del passato e con i loro narratori: dalla peste ateniese a quella manzoniana.

 

Siamo tornati a convivere con termini dal sapore antico: quarantena, coprifuoco, confinamento. Non a caso Geopandemia si apre con l’episodio della distruzione di Pompei, preso dal saggio di Michel Onfray: un invito a recuperare lo stoicismo e la saggezza antica. Inoltre, nel presente, è necessaria la discesa in campo dello Stato come garante del welfare, della coesione sociale, come potere frenante contro gli eccessi dell’iper-accumulazione.

 

E le reti di comunicazione e di trasporto hanno ancora un ruolo fondamentale come nel passato?

L’Impero romano durò quasi un millennio perché si basava su una solida e capillare rete di trasporti, via terra e via mare che permetteva anche lo scambio di culture, usi e costumi. Le reti sono tra le forme più comuni di organizzazione sociale, senza pretendere l’adesione esclusiva dei propri membri. Le definisco strutture plastiche che si possono adattare a ogni situazione e contesto. Tra l’altro riflettiamo sul fatto che le civiltà vitali ed espansive costruiscono reti di comunicazione e aprono nuove rotte e quelle in declino erigono muri che si illudono di poter presidiare. 

La “teoria dei giochi” come può contribuire alla comprensione dei fenomeni attuali e suggerire soluzioni?

Trovo estremamente calzante l’uso del famoso “dilemma del prigioniero”, di fatto un esperimento sociologico che ci fa scoprire come, nella maggior parte delle situazioni, anche le più complesse, si riesce a uscirne mantenendo salda la fiducia negli altri “giocatori”: oggi è innegabile la necessità di riscoprire la fiducia nel quadro del sistema istituzionale, economico e appunto internazionale.

 

La risposta alla pandemia - seguendo la teoria dei giochi - sta nel valorizzare la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni e viceversa. La realtà è nella nostra contemporaneità quasi nessuno (e spesso a ragione) si fida degli altri attori, e soprattutto è in crisi la fondamentale fiducia verso chi è chiamato a dettare le regole, con le drammatiche conseguenze che vediamo.

 

In questo quadro complesso quali tra le sue doti, universalmente conosciute e imitate anche da altri Stati, l’Italia dovrebbe tirare fuori?

Investire sul proprio capitale umano, puntare sulle realtà lavorative e produttive dei territori, costruendo una nuova rete di solidarietà diffusa. Allo stesso tempo stimolare la competizione e valorizzare meriti e talenti. Il declino non è un destino.