In cover, a sinistra, Barbara Spezzini, direttrice della onlus Articolo 10 e ideatrice della sartoria sociale Colori Vivi © Luigi Migliore
Nella minuscola sartoria di corso Marconi 9, a Torino, le macchine da cucire sembrano non fermarsi mai. Tra pezze di coloratissime stoffe wax arrivate dal Congo e pregiati tessuti made in Italy di Marzotto Group, Fratelli Piacenza, Lanificio Sordevolo e Loro Piana, in questi giorni campeggiano un po’ ovunque anche scatole e scatoloni, a indicare un prossimo trasloco. Presto, infatti, il laboratorio Colori Vivi si trasferirà in un locale decisamente più ampio, con tre grandi vetrine in via Parini 9, vicino alla stazione Porta Nuova, in un quadrilatero di vie molto frequentate e, appunto, vive. Una buona notizia, un bel passo in avanti.
La soddisfazione corre sui volti di tutte le sarte al lavoro, gomito a gomito, intente ogni giorno a confezionare capi con metodi e tecniche artigianali e, allo stesso tempo, dalla forte impronta innovativa grazie a una ricerca artistica e stilistica d’avanguardia. Si chiamano Sadia, Cathy, Maria e Veronica. Nomi di fantasia, come quelli delle loro collezioni. Perché sono tutte donne rifugiate – congolesi, nigeriane, somale – fuggite da un passato comune fatto di violenze, soprusi, guerre, prostituzione, persecuzioni familiari. Ma il loro presente è diverso. È oggi intessuto di “colori vivi”.
Arte, creatività, vita e vitalità rappresentano l’outfit della loro neonata ma promettente impresa sociale, così come della loro voglia di ricominciare. «Sadia è una straordinaria donna somala che ha ispirato la realizzazione del progetto di Colori Vivi. Mi diceva sempre che voleva smettere di bere l’acqua dalle mani di altri. Credo che questa frase rappresenti bene la volontà di queste donne di darsi da fare per autodeterminare il proprio futuro, che comprende anche il desiderio di diventare cittadine attive nel Paese in cui hanno scelto di crescere i loro figli». Con queste parole, Barbara Spezini mi accoglie nella sartoria aperta nel 2017 grazie all’esperienza tutta al femminile della onlus Articolo 10, di cui è la direttrice.
Le sarte al lavoro nel laboratorio Colori Vivi © Nazzaro Anais
Come nasce questo progetto?
Dovevamo occuparci di trovare lavoro a donne rifugiate che non avevano altra alternativa oltre a quella di vivere di assistenza, sottomesse alla comunità di riferimento o a uomini con pochi scrupoli ed esposte al rischio di subire ancora violenze psicologiche e fisiche. Potevamo farlo in molti modi. Noi abbiamo scelto di sostenere queste donne coinvolgendole direttamente nelle nostre attività, instaurando così una relazione alla pari, riconoscendo loro una dignità che fin a quel momento ritenevano perduta. Il lavoro è un prerequisito fondamentale per attivare un processo di inclusione sociale: la nostra idea si basa sul presupposto che una donna straniera integrata sia una risorsa sociale ed economica per il territorio in cui vive. Ma vuole essere anche un messaggio che parla di pace e di un futuro in cui la convivenza con “l’altro diverso da me” diventa possibile.
C’è una storia, tra le tante in cui ti sei imbattuta, che ti è rimasta più impressa?
Mi hanno colpito tutte. Ma mi torna spesso alla mente quella di Anabel (nome di fantasia, ndr), rifugiata congolese, e della sua bambina C. di sette anni. Le abbiamo conosciute allo sportello informativo della nostra associazione grazie all’aiuto di un uomo che aveva incontrato Anabel alla stazione Torino Porta Nuova mentre chiedeva aiuto. Dormiva lì, con la sua piccola, da cinque giorni. Il suo lavoro a Caserta era terminato e le avevano solo comprato un biglietto del treno per una destinazione a sua scelta. Aveva deciso per Torino perché le avevano detto che qui avrebbe trovato aiuto. L’abbiamo accolta subito in un alloggio di fortuna, poi le abbiamo assegnato una casa in convivenza con un’altra famiglia, dove avrebbe potuto rimanere con la sua bimba fintanto che non le avessimo trovato un lavoro.
I primi due mesi nella nuova sistemazione Anabel li ha trascorsi vicino a un termosifone, al buio, ogni giorno. La piccola stava apparentemente bene, giocava con le figlie della coinquilina, però non poteva andare a scuola perché doveva aspettare l’inizio del nuovo anno scolastico. Ma C. ogni giorno chiedeva: «Quando potrò cominciare?».
Anabel ci ha raccontato la sua storia di minacce e violenze. Era la moglie di un rivoluzionario, aveva due bambine. Un giorno suo marito venne rapito e rimase sola. Poi fu rapita anche una delle sue figlie e non si seppe più nulla di lei. Qualche giorno dopo, alcuni uomini entrarono in casa e abusarono di lei sotto gli occhi della piccola C., che ancora oggi ne porta le conseguenze a livello psicologico. Ferita e scioccata, fu salvata da morte certa grazie a un uomo che l’aiutò a fuggire insieme a sua figlia. Così ha avuto inizio il loro viaggio verso l’Italia. Dopo poco, le abbiamo proposto di venire in sartoria, perché ci chiedeva di fare qualcosa. Non poteva più stare con le mani in mano: i suoi pensieri erano come cani arrabbiati che la divoravano.
Da lì in avanti è stata tutta una sorpresa. Non aveva mai preso in mano ago e filo, oggi è una sarta molto brava.
Come funziona la sartoria? Chi ci lavora e collabora?
Il nostro staff è composto da una responsabile di produzione, otto donne migranti con la funzione di sarte, di cui quattro in tirocinio formativo, e tre italiane che si occupano delle attività di approvvigionamento, comunicazione, vendita e amministrazione. Inoltre, Colori Vivi beneficia del lavoro di 15 volontari tra cui due sarte esperte in pensione, fondamentali per la formazione professionale delle migranti, capaci di assicurare il recupero di un’artigianalità che si sta perdendo.
Photo © Luigi Migliore
Oltre allo scambio culturale, sin dall’inizio avete improntato la vostra attività sui valori del consumo sostenibile. In che modo?
I tessuti che utilizziamo provengono da filiere controllate oppure sono fine pezza di altissima qualità, cioè quel quantitativo di tessuto non utilizzato che resta nei magazzini dei produttori o dei brand che lo avevano acquistato per le loro creazioni. Si tratta spesso di uno scarto da smaltire negli inceneritori a cui diamo nuova vita attraverso le nostre produzioni. Insomma, i nostri capi sono la sintesi di quel mix che per noi dovrebbe essere il cambiamento: professionalità, scambio tra culture diverse, ecosostenibilità.
Come nascono le collezioni e come vendete i vostri prodotti?
La nostra stilista, Alessandra Montanaro, coordinatrice del corso di fashion design allo Ied di Torino, ispirandosi ai nostri valori e alla nostra storia realizza i disegni per le nuove collezioni e sceglie i tessuti adatti. La cliente che viene a trovarci nello showroom ha la possibilità di indossare i capi di campionario e può scegliere le stoffe con cui realizzarli. Per chi non può raggiungerci fisicamente, tutti i capi sono disponibili per l’acquisto online.
Le donne rifugiate impiegate nella sartoria sono diventate autonome economicamente?
Direi di sì. E da quest’anno i risultati aumenteranno, perché la nostra attività si sta consolidando. A oggi sono indipendenti quattro di loro, il 50%. Nell’anno in corso probabilmente, se le vendite lo consentiranno, questo sogno si potrà realizzare per altre tre donne. È un obiettivo ambizioso ma possibile. Per questo chiediamo a tutti di venirci a trovare in presenza o nel nostro shop online.
In poco tempo avete già ricevuto molti premi e riconoscimenti…
Sì, nel 2018 i nostri sforzi sono stati riconosciuti dalla Kering Foundation, fondazione filantropica dell’omonimo gruppo internazionale leader in abbigliamento e accessori di lusso (e proprietario dei marchi Gucci, Balenciaga, Bottega Veneta, Saint Laurent, Alexander McQueen, Brioni, ndr) che ci ha assegnato il secondo premio tra gli Awards for Social Entrepreneurs.
Qual è l’ultima collezione che avete licenziato e come la descriveresti?
La Primavera-Estate 2021, che uscirà a metà marzo, in occasione della quale realizzeremo un evento nei nuovi spazi in via Parini. Quella precedente, l’Autunno-Inverno 2020, era stata sviluppata interamente durante l’emergenza sanitaria provocata dal Covid- 19: per questo è composta di soli tre capi. Sul sito di Colori Vivi si possono vedere gli scatti realizzati dalla fotografa Federica Borgato. Descriverei la collezione con le parole della stilista Alessandra Montanaro: la bellezza della diversità.
Articolo tratto da La Freccia