In cover, Samuel © Davide De Martis

Più che un cantautore, Samuel potrebbe definirsi un avventuriero: a luglio, in piena pandemia, ha imbastito tre live in mezzo al mare delle Eolie e ha messo in piedi una tournée. Oggi, invece, arriva Brigata bianca, secondo album solista che il frontman e co-fondatore dei Subsonica e dei Motel Connection ha composto e cantato nel Golfo Mistico, il suo studio torinese, dove si è rifugiato in questi mesi difficili per creare musica.

 

Quando è nato questo progetto discografico?

Nei primi giorni di lockdown, a marzo. C’erano delle scintille nell’aria che dovevano essere intercettate e rese concrete. Nel momento in cui il mondo si è fermato si è generata, in me, una sorta di voracità creativa che ho concretizzato nella scrittura.

 

Com’è il mondo visto dal Golfo Mistico?

Quando si ha la fortuna di costruire un piccolo spazio in cui raccogliere idee e forza espressiva, si ha un privilegio che permette diverse libertà: sperimentare e viaggiare attraverso idee musicali, senza problemi di tempo, scadenze o costi. Reputo molto bello il mondo visto da qui: il mio studio accoglie tantissimi amici, vuole essere una piattaforma di creatività condivise, diverse, che interagiscono stimolandosi a vicenda.

 

Come definiresti Brigata bianca?

Un’evoluzione. Ci sono collaborazioni con artisti e produttori anche molto giovani, sonorità dance, cantautorali, elettroniche, si torna a utilizzare l’alfabeto costruito con la musica che ho sempre amato.

 

Il secondo estratto del disco, Cocoricò, si avvale della collaborazione di Colapesce (che presto vedremo in gara con Dimartino al 71° Festival di Sanremo, ndr). Perché proprio lui?

Sentivo la necessità di ampliare la visione dell’album. E ho chiamato amici, creato sessioni di scrittura, passato giorni in studio a lavorare. Con Lorenzo (Colapesce, ndr) non ci siamo mai frequentati musicalmente parlando, ma ero colpito dalla sua capacità di scrittura, dalla voglia armonica e melodica di raccontare determinate cose, che sentivo molto vicine a me. Ho passato due giorni bellissimi a scrivere con lui e Federico Nardelli, con cui lavora spesso. Con loro abbiamo deciso di fare uscire Cocoricò la notte di Capodanno.

 

Nel disco troviamo anche Ensi, Johnny Marsiglia, Fulminacci e Willie Peyote (anche questi ultimi due nomi sono in gara tra i big di Sanremo, ndr). Come hai scelto i featuring?

Il titolo dell’album racconta molto bene l’idea di un gruppo di persone che ha preso parte a un rito collettivo di amicizia. Ho iniziato a comporre da solo, ma avevo lasciato spazi vuoti, pensando che qualcuno li avrebbe successivamente riempiti. Non c’è stato un disegno a tavolino, le collaborazioni sono accadute, è stato un processo naturale. Di base c’è un legame sonoro, di linguaggio, di tipologia di comunicazione e di amicizia.

 

Hai fatto un tour particolare quest’estate. Cosa ti ha lasciato?

È successo qualcosa di rocambolesco: dopo il primo lockdown c’era una situazione apocalittica. Le maestranze dei concerti erano terrorizzate per quello che sarebbe potuto accadere. Per creare un precedente, ho organizzato un evento storico che rimarrà per sempre nella nostra vita: tre concerti in mare. Un gesto simbolico per far sentire che il nostro mondo non era morto. E che ha generato una reazione a catena. Molti promoter e organizzatori, incoraggiati dai miei live, hanno iniziato a pianificare concerti simili, ovviamente rispettando tutti protocolli sanitari per contrastare il Covid-19. Rimarrà nel cuore l’idea di aver fatto un viaggio simbolico e pionieristico:

è stata data la possibilità, ad alcune persone, di ricominciare una vita normale. Un’esperienza magica.

 

Nella cover del disco, progettata dall’art director Marco Rainò e con grafiche di BRH+, sei un ussaro moderno. Perché proprio questa figura?

Sono una specie di capitano che spera di tornare alla normalità. Ci siamo affidati alla magia dei simboli grafici evocativi: ogni brano ha un marchio che racconta emotivamente quello che c’è dentro. Francesco Pignatelli ci ha aiutato a realizzare due bellissime giacche, pensando al concetto di comandante di brigata che conduce i propri amici in battaglia, contro la paura.

 

Il brano più rappresentativo dell’album?

Ho sempre cercato di trasformare i miei dischi in viaggi. Non a caso scrivo tanto in treno: tra Torino e Roma sono nati il mio primo disco solista Il codice della bellezza e alcuni testi di Brigata bianca. Ogni pezzo ha una sua modalità espressiva. Quello che mi rappresenta di più è Nemmeno la luce: mi riporta agli anni ’90, quando il sound elettronico dei dj produttori ha cambiato il modo di pensare la musica e la scrittura. Mi fa sentire più a casa, perlomeno in questo momento: le preferenze sono mutevoli, come il tempo.

Articolo tratto da La Freccia