Testo e foto di Luca Pelagatti. In cover Monumento a Giuseppe Verdi nella piazza omonima a Busseto (PR)
Strana cosa il melodramma. Che uno pensa sia solo la materia di cui son fatte le romanze e gli acuti dei tenori. Poi basta arrivare nella Bassa parmense, paese di nebbie e pioppeti, e si scopre che la lirica è molto di più. È geografia concreta, pianura e canali, ma anche un percorso di terra e aria, anzi arie: sì quelle cantate dai big dell’opera e quelle scritte dai cantori di queste terre. Come Giovannino Guareschi, papà di Peppone e Don Camillo che per casa donò loro la Bassa, un luogo per chi non ha paura di restar solo coi propri pensieri. Perché, scrisse l’autore, anche se siete in macchina, «spiritualmente voi la percorrete a piedi o sul calesse».
Lo stesso calesse, magari, con cui Giuseppe Fortunino Verdi ogni mattina usciva dalla sua casa di Sant'Agata (PC). E Verdi, della Bassa e del melodramma, è incarnazione tanto che lui, il compositore più rappresentato al mondo, riverito persino dallo zar, non seppe mai, per davvero, staccarsi da queste zolle. Vantandosi, con fierezza piaciona, d’essere rimasto «un contadino delle Roncole», riferendosi a quella piccola frazione di Busseto.
Ecco: Sant'Agata. Partiamo proprio da qui per il nostro vagare tra la mazurka e il bel canto, tra la Via Emilia e il mito. Oggi, a esser generosi, è giusto un assaggio di paese, ma ai tempi di Verdi era solo terra grassa e granoturco. È proprio qui che il Maestro, nel 1848, si comprò una casa di campagna che trasformò, disegnando personalmente il progetto, in una sontuosa villa circondata da un grande parco. Nonostante le profanazioni del tempo, sembra ancora di vederlo al pianoforte a comporre e battibeccare con l'editore Giovanni Ricordi.
Nella villa, ancora abitata dagli eredi, si sfiorano spartiti, cimeli e busti, ma un omaggio doveroso lo si deve ai ritratti dei beniamini di casa: un pappagallo e un cagnolino. Verdi e Giuseppina Strepponi, la sua seconda moglie, li amarono come i bimbi che non ebbero. Oggi nel parco spicca la tomba dell’adorato maltese Lulù, con epitaffio “A un vero amico”. Se questo non è melodramma.
Poco oltre, un viale di alberi che sfumano nelle brume conduce ai campi che ogni giorno, sul solito calesse, il Maestro andava a perlustrare. La malinconia del Va pensiero non può essere stata distillata se non su quella carraia, fra i fossi che rigano la campagna. La stessa da percorrere senza fretta, cercando apposta di perdersi tra stradine sghembe che portano fino a Busseto.
Una precisazione, però: se Verdi odiò Busseto, noi non possiamo non amarlo. Anche perché il paese stesso è pura lirica: una strada di porfido incorniciata di portici; case color nostalgia; come fondale un palazzo antico e un teatro bomboniera. Da un’osteria consacrata al Cigno – così l’artista fu soprannominato per l'eleganza del suo stile musicale – rimbalza a ogni ora il coro de Il trovatore.
A Busseto, Verdi visse e ancor oggi ci sono la sua prima casa, un museo e mille citazioni. Peccato che, genio rancoroso, il teatro a lui dedicato, gioiello di stucchi e velluti da appena 300 posti, non lo volle neppure vedere. Si era legato al dito che i compaesani biasimassero la sua relazione con la Strepponi con cui “viveva nel peccato”. I tempi erano quelli, il paese era piccolo e Verdi, si sa, non le mandava a dire. Il teatro non lo ebbe quindi mai ospite ma, per fortuna, a noi rimane in eredità per le serate del Festival Verdi. Fateci caso: la statua del compositore, al centro della piazza, ha il ghigno di chi ha poca voglia di scherzare.
L’interno del Caffè Centrale nella piazza di Busseto con ricordi e cimeli verdiani
Ma questa è la Bassa, terra di gente che ama e odia senza mezze misure. Verdi non si sentì amato, un peccato visto che, ancora oggi tutti, sotto i portici o davanti agli specchi del caffè Centrale, lo chiamano Maestro perché di strada ne ha fatta quel “contadino” partito dalla sua casetta delle Roncole. La strada è una fucilata di asfalto che sfiora quell’edificio basso, padanamente sghembo, abbastanza sgraziato da non sembrare una promessa di destino glorioso. Qui c’era la drogheria-osteria dei suoi genitori e da qui il piccolo Giuseppe partiva a piedi per andare dal suo primo maestro, un sacerdote di paese. Le sue grandi armonie sono, almeno in parte, nate sulla sfiatata spinetta con cui cominciò a strimpellare.
La casa di Verdi ora è stata rimessa a nuovo, ci sono postazioni multimediali e la sua musica ci segue su e giù per la ripida scala. Ma anche senza tecnologia, guardando quei soffitti bassi, l’emozione sgorga da sola. Proprio come fanno le risorgive che traforano la pianura del Grande Fiume che scorre poco lontano. Anche se in questo Mondo Piccolo nulla è distante.
Dalle Roncole le bizze delle strade interpoderali portano al Po o, se si preferisce, verso est, verso Parma. Ma tanto vale prendersela comoda, sostare senza fretta in qualche trattoria. L’atmosfera apparentemente dimessa non induca in errore: quaggiù, oltre al do di petto, si celebrano sua maestà il maiale e il blasonato Parmigiano Reggiano. Quasi sempre a tavola sono esperienze che si fanno ricordare.
Quando si riparte, Soragna non è lontana e l’eco dell'epopea verdiana si smorza appena, non quell’atmosfera di romantica magia. Il paese, infatti, ha portici, silenzi e scorci d'altri tempi. Soprattutto ha una rocca trecentesca, con tanto di fossato e parco muschioso. Il castellano che la abita oggi, Diofebo Meli Lupi di Soragna, è marchese, Grande di Spagna, principe del Sacro Romano Impero e divide le sale affrescate con il fantasma di Donna Cinerina. La poverina è inquieta: il suo spirito, dal 1573, non trova mai pace di notte. In una terra così calda d'estate e tanto fredda d'inverno è un destino comune.
Qualche curva ancora e si arriva a Fidenza, quella che un tempo fu Borgo San Donnino e che oggi è piuttosto, con il suo celebre outlet, calamita da mezza Europa per i fashion victim dello shopping. Gli stilisti non ce ne vogliano: il rigore romanico della facciata del duomo firmato da Benedetto Antelami surclassa, con la sua altera semplicità, qualunque brand all’ultima moda.
Poi, finalmente, la Via Emilia: dai tempi dei Romani questa è la strada per eccellenza. Lo era ai giorni di Verdi e continua a esserlo anche se oggi, a fianco, lievitano autostrade e rombano le Frecce su rotaia.
La campagna è verde e ricca: dai campi negli afosi giorni d’estate salgono umore di terra e canto delle cicale, mentre con i brividi d'autunno le foglie svelano tutte le declinazioni dell'amaranto. Parma è la meta, ma intanto un’ultima deviazione porta al paese di Fontanellato. Se vi piacciono i castelli delle favole qui vorreste ascoltarne una. La Rocca Sanvitale spicca proprio in mezzo al borgo con le sue terrazze merlate e il fatidico fossato abitato da ciclopiche carpe. All’interno, ecco l’incantesimo di una camera ottica dove il visitatore gioca sbirciando la vita e le ore che scorrono là fuori o la meraviglia affrescata dal Parmigianino che scherza con la mitologia.
Infine, dopo tanta campagna, la città. A Parma, Verdi può fare da guida. No, in realtà il Maestro non l’ha abitata, ma nel grande Teatro Regio le sue opere sono di casa e in molte vetrine il suo volto, con la barba candida, occhieggia severo.
Parma va affrontata con calma: il mezzo migliore è la bicicletta, anche perché tutto è piatto e il vento difficilmente si diverte a fare i dispetti. Potendo poi scendere e salire dai pedali c’è tutto il tempo di godersi i tanti scorci che fanno battere il cuore. Un torrente sgarbato o troppo irruento o di colpo siccitoso la divide in due. Il bello è non decidere e saltare da una parte all’altra delle sue sponde.
Quasi affacciato sulla riva un palazzo si fa notare, non per l’architettura, ma per il suono. Dalle finestre del Conservatorio Arrigo Boito, dedicato a uno dei librettisti del Maestro, gorgheggi di soprano e trilli di violino fanno risuonare il vicolo. Verdi, sempre corrucciato, si compiacerebbe di queste acerbe prove d’orchestra in suo nome.
Quindi, di nuovo, via sui pedali. Poche centinaia di metri e si può scegliere tra i capolavori del Correggio o la dolcezza del sorriso de “La Scapiliata” di Leonardo da Vinci. I primi sono impressi sulle cupole delle chiese, l'altro su un piccolo quadro nella Galleria nazionale del Palazzo della Pilotta. Tutti fanno girare la testa. Di colpo, però, ci si ritrova su un grande prato, tra antiche pietre dove spicca ciò che resta di un'altra opera, il monumento a Verdi. Le bombe assai poco intelligenti delle fortezze volanti nel 1944 lo fecero a pezzi. Qui, se siete fortunati, potrete ammirare il volto del Maestro inciso nel marmo mentre un giovane musicista si inerpica sulle note. Non fate e non dite nulla. Soltanto, sottovoce, ripetete «Libiam, Maestro». Guardate bene: forse non sembra, ma Verdi, adesso sì, sorride.
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11 settembre 2020