Appena proclamato il vincitore del Premio Campiello, sembrava quasi non fosse stato pronunciato il suo nome. Espressione placida, muscoli inerti, aria composta. Poi il volto si è sciolto in un sorriso pacato. Remo Rapino non è uno scrittore che muove la penna per guadagnare i riflettori, non è un intellettuale da salotto. È un ex insegnante di liceo della provincia abruzzese che ama la filosofia, la poesia, le parole e le persone. Il protagonista del suo libro “Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio” è il matto del paese, che guarda le cose in un angolo, da una prospettiva obliqua ma sincera. Alzando il premio, Rapino ha affermato che il Campiello è stato come ricevere in regalo un viaggio, in cui non conta tanto la destinazione finale, quanto le tappe prima di raggiungerla.
Durante la cerimonia conclusiva ha detto che il Campiello è stato come compiere un viaggio che le ha permesso di conoscere la tenerezza di Patrizia Cavalli, d'incontrare Francesco Guccini e tornare ai 20 anni attraverso le sue canzoni, di conversare e ridere con gli altri autori. Per lei è più importante il viaggio rispetto alla meta?
Penso di sì. A Venezia ho citato la poesia “Itaca” di Kostantinos Kavafis, in cui scrive che Itaca non può deludere. Non per l’isola in sé, ma per tutto ciò che si vive prima dell’approdo. Il Campiello per me è stata un’occasione di incontri preziosi, una bella esperienza umana.
Parlando di viaggi reali, c’è n’è qualcuno da cui ha preso spunto o da cui è stato ispirato per i suoi romanzi e le sue poesie?
Tutti i viaggi si confondono tra loro, entrano nell’anima senza una gerarchia precisa e, a volte, riemergono. Dal viaggio è nata la raccolta di poesie “La profezia di Kavafis” dove traccio una sorta di mappa poetica di alcuni luoghi che ho visitato: le isole greche, Lisbona, Genova, Siracusa. Una volta partivo con gli amici da Lanciano, la mia città, per itinerari tematici: i luoghi di Proust, la Lisbona di Pessoa, le terre delle eresie in Francia. Dalla partenza in poi, la strada si componeva di frammenti preziosi: le cose che scoprivi, le persone in cui ti imbattevi, i paesaggi in cui ti fermavi. All’arrivo il viaggio si era già concluso. Anche lo stesso Liborio, protagonista del mio ultimo libro, è frutto di viaggi: quelli fatti per andare all’università a Bologna, quelli per le visite per la leva militare. E poi si viaggia anche con le parole e i racconti degli altri.
Lei ha raggiunto Venezia, sede della serata finale, con il treno. Cosa ama fare durante il viaggio?
Guardo fuori dal finestrino, leggo, prendo appunti. Dagli anni ’70 in poi ho percorso spesso in treno la linea adriatica. Ne conosco bene i paesaggi. Aspetto con ansia il passaggio sul Po. Mi piace la grandezza di questa arteria d’acqua. Non dormo mai prima di arrivarci. Mi assopisco dopo, alla luce del fiume.
Com’è nato il personaggio di Liborio Bonfiglio e perché ha scelto come protagonista un folle?
La letteratura è piena di matti: il fool shakespeariano è quello che dice le cose che gli altri non hanno il coraggio di dire. Stessa cosa per il principe Myskin di Fëdor Dostoevskij, per Macario di Juan Rulfo, per Gimpel di Isaac Singer. Personaggi che esprimono verità nascoste, al di là della superficie, dell’ipocrisia, della retorica. Liborio è come il bambino della favola di Hans Christian Andersen che svela che il re è nudo.
Il paradosso del libro è che il protagonista è inventato, ma tutti i fatti che gli accadono sono reali. Volevo raccontare il Novecento italiano attraverso gli occhi di un visionario, a metà tra Don Chisciotte e Forrest Gump, con la sua ingenuità e il suo disincanto. È la storia vista da una periferia esistenziale. Perché la storia non la fanno solo i grandi personaggi ma, come dice Francesco De Gregori, anche quelli che non sanno parlare.
C’è un verso di Fabrizio De André che recita: «E la luce del giorno si divide la piazza/tra un villaggio che ride e te, lo scemo che passa». Ecco io mi sono messo su quel lato della piazza ad ascoltare Liborio e a fargli eco. Lui, raccontando sé stesso, ripercorre un secolo e dà voce, in qualche modo, a chi non ne ha. Agli ultimi della fila, agli emarginati. Con una lingua bastarda, gergale, sgrammaticata, ricca di dialettismi e parole fantasiose. Perché Liborio non è uno che ha la cultura per scrivere della sua vita in italiano corrente. Volevo dare vita a una storia in cui prevalesse il sentimento di amore, che invitasse ad accettare la diversità e ad accogliere l’altro. È un libro di porti aperti, di viaggi verso l’altro. E verso altri tempi, altri spazi, altre anime.
Con “Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio” si viaggia nel Novecento: si ripercorrono la guerra, la Resistenza, il boom economico, il lavoro in fabbrica, il ’68, il manicomio…
Liborio nasce nel 1926, anno in cui nacque mio padre, e si appresta a uscire di scena nel 2010, quando mio padre venne a mancare. Alcuni parti del libro nascono dai suoi racconti, come quella dei martiri ottobrini di Lanciano, un gruppo di partigiani che affrontò i tedeschi nell’ottobre del 1943. Il Liborio di Bologna vive le mie esperienze, i discorsi in piazza Maggiore, l’università. Poi la fabbrica e le lotte operaie.
Com’è stato il viaggio di ritorno da vincitore? Com’è andato il suo rientro in Abruzzo dove vive?
Ho perso la coincidenza per Lanciano, quindi mi sono dovuto far venir a prendere a Pescara. Ero molto stanco. Ora le persone mi salutano, mi fanno i complimenti. Alcuni mi hanno scoperto con il Campiello. Adesso andrò un po’ in giro per presentare il libro e i video. Liborio, infatti, è stato interpretato anche da alcuni attori, tra cui Fabrizio Gifuni che ha realizzato l’audiolibro per Minimum Fax. Perfino un attore egiziano leggerà il romanzo in arabo: al Cairo c’è l’istituto di cultura italiana dove si è votato per il Premio Strega a cui “Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio” era candidato. Il volto di quest’interprete mi ha colpito molto: barba lunga, denti radi, occhi spiritati. Proprio come avevo immaginato io Liborio. Oltre che per il programma di presentazioni, mi muoverò anche nei paesi vicini a Lanciano perché ci sono ex studenti che mi chiamano e non posso dire loro di no.
Il complimento più bello che ha ricevuto?
Quello di mio nipote che vive a Bologna e ha quasi 8 anni. Quando la mamma gli ha comunicato che avevo vinto il Campiello, ha esclamato: «Strano!». Al Premio Strega era rimasto deluso: ero candidato, ma non sono entrato nella rosa dei finalisti. Lui, che ama molto il calcio, ha detto: «Nonno ha perso ai rigori». Quindi la mia vittoria era strana perché di solito, quando tifa per qualcuno, quello perde sempre.
Il 2 settembre si apre Venezia77.
29 agosto 2020