In cover Henry Holiday, Dante e Beatrice (1883), Walker Art Gallery di Liverpool  © Archivist/Adobestock

«Tanto gentile e tanto onesta pare/ la donna mia, quand'ella altrui saluta,/ch'ogne lingua devèn, tremando, muta». Muta non restò, invece, la lingua di Dante che proprio nell’ammirazione e nell’amore per Beatrice trovò fertile ispirazione. E nell’amore, in quel sentimento atemporale e mitologico, hanno tratto ispirazione tanti altri poeti e poetesse, prima e dopo di lui, per versi raffinati e commoventi o spazi di realtà sublimata dove rifugiarsi, pensiamo a Isabella di Morra o a Gaspara Stampa, fino a Emily Dickinson. Quanto a Beatrice, protagonista del celebre sonetto – figura simbolo della donna amata per eccellenza – qui la vogliamo immaginare in carne e ossa, nella sua breve esistenza terrena, oltre che in quella ultrasecolare, letteraria, donatale dall’Alighieri.

 

Grazie alla sua intercessione, il Sommo ha condotto per mano decine di generazioni in quel viaggio allegorico che dagli inferi sino alle sfere di luce accecante porta direttamente al divino. E immaginando Dante come un uomo contemporaneo, ci piace credere che il Poema l’abbia scritto per elaborare un lutto, come si usa dire in psicoanalisi: quello per la perdita precoce della donna amata. Di lei si sa poco, ma secondo Boccaccio si tratta di Beatrice Portinari, detta Bice. Muore ad appena 25 anni, nella Firenze di fine ‘200, e Dante per non impazzire di dolore inizia a scrivere. Bice è per lui la prima infatuazione bambina, che diventa scompiglio adolescente per poi trasformarsi in battito d’ali, donna celeste, sentimento rarefatto, colei che permette di entrare niente di meno che in Paradiso e percepire Dio attraverso i suoi occhi.

 

La vede per la prima volta al Calendimaggio (il primo di maggio da calendario), quando inizia la bella stagione e le contrade fiorentine festeggiano intorno a tavole imbandite. Nove anni lui, uno meno lei. Forse giocano insieme, Bice ha un abitino rosso, lui è un bambino precoce in tema d’innamoramenti: «D’allora innanzi dico che Amore segnoreggiò la mia anima». Lo scrive qualche anno dopo nella Vita Nova, quando Beatrice è già morta, dove ci racconta tutto di lei e di quel che in lui ha suscitato. E narra anche di quel fantomatico secondo incontro avvenuto anni dopo, sui Lungarni vicino al ponte Santa Trinita, durante una passeggiata. Bea 17enne, bella e leggiadra e adulta per il suo tempo – è già sposata – lo riconosce, incrocia il suo sguardo e lo saluta. La prima e unica volta che si parlano manda nel panico il povero Dante, lo getta in un trambusto di sensazioni mai provate: «Mi parve allora vedere tutti li termini de la beatitudine», annota.

Dante e Beatrice contemplano l’Empireo, illustrazione di Gustave Doré © Archivist/Adobestock

La sogna, probabilmente si sveglia madido e di getto si cimenta nel suo primo verso d’amore, A ciascun’alma presa, seguendo una nuova attitudine in voga tra i giovani poeti: comporre versi e liriche che raccontino sentimenti ardenti, lodino la bellezza della donna che fa battere il petto e descrivano gli effetti della passione.

 

Non in latino ma in volgare, la lingua comune parlata da tutti, con rime semplici e comprensibili, pianeggianti e dolci, adatte anche a essere musicate e cantate. Aveva iniziato qualche decennio prima un bolognese che di lavoro faceva il giudice ma che si dilettava, ispirato dalle storie dei trovatori su dame e cavalieri, a scrivere: «Al cor gentil rempaira sempre amore». Guido Guinizzelli rimava su quanto l’affetto per eccellenza abitasse nei cuori puri, non necessariamente di casato nobile ma sinceri, onesti e puliti. Convinto che una donna da elogiare posi sempre il suo sguardo su colui che ama dal profondo, gentile d’animo. Guinizzelli, insomma, pone le basi per una nuova arte poetica che Dante fa sua appieno e per cui si sente piuttosto portato: il Dolce stil novo, come lo definisce nel Purgatorio per bocca dell’autore toscano Bonagiunta Orbicciani.

 

È così che il Poeta con la P maiuscola inizia a verseggiare, entrando in “tenzone” con gli altri colleghi, tra cui l’amico Guido Cavalcanti, ma anche Lapo Gianni e Dino Frescobaldi e, chino sui fogli, ascolta ogni rintocco del suo – ovviamente gentile – cuore, per scrivere sotto dettato diretto di Amore. E scrive tanto. Lemmi, rime, sonetti, ballate e canzoni che raccoglie nella Vita Nova, tutte per lei. Sempre per Beatrice, rivista di sfuggita, a un matrimonio o in chiesa, dove lui la fissa silenzioso sempre più in preda a quel platonico sentire che non ammette possesso e gelosia, ma “solo” contemplazione della fanciulla.

 

Sempre più angelo e mai femmina, idea e mai carne, spiritualità ma non passione. «E par che de la sua labbia si mova un spirito soave pien d'amore, che va dicendo a l'anima: Sospira». La fatica d’esser amata dai poeti e di dover rimanere, per sempre, battito d’ali invece che ragazza spensierata a passeggio per Firenze.

Articolo tratto da La Freccia