In cover, da sinistra, il giornalista Paolo Marchi con lo chef Carlo Cracco durante Identità golose
«Mio padre mi avrebbe voluto sportivo, un atleta, e mia mamma bello. Ma mi è sempre piaciuto mangiare, ero la soddisfazione di parenti e amici che mi invitavano a pranzo: mentre gli altri si fermavano, io assaggiavo tutto e curiosavo in cucina». Una curiosità che tutt’ora divora l’anima di Paolo Marchi, deus ex machina del giornalismo enogastronomico e fondatore, insieme all’imprenditore Claudio Ceroni, di Identità golose, congresso mondiale della gastronomia che ha chiuso da poco la 16esima edizione.
Dal 2019 Marchi è anche un volto televisivo: è stato lui, e ne è molto felice, a mostrare gli chef al vastissimo pubblico di Striscia la notizia. «Ero certo che Antonio Ricci amasse la buona tavola, è stato naturale proporgli di raccontare nel suo programma i piatti dei grandi cuochi. Sono orgoglioso di aver portato la cucina stellata in una trasmissione popolare di altissima audience, per far capire il lavoro che c’è dietro e la fatica che si fa per raggiungere certi risultati. Bellissimo mondo quello di Striscia», sottolinea Paolo.
Paolo Marchi e Andrea Radic alla stazione di Milano Centrale
Quando è scattata la passione per il tuo lavoro?
Avevo tre passioni: il giornalismo, la fotografia e la cucina. Ma quando un padre, come era il mio, conosce tutti, scatta subito l’ansia da prestazione. Gli dissi che amavo la fotografia e mi fece incontrare Oliviero Toscani, che tra l’altro mi stroncò precisando che non avevo tecnica. Un giorno ho affermato che mi piaceva lo sci e mi sono ritrovato sullo Stelvio dove si allenava la Nazionale. Ma nel mondo della cucina, a parte le cene con Ottavio Missoni, le conoscenze di mio padre erano meno vaste, così ci provai per non sentirmi in gara. Alfredo Valli, grande cuoco, mi avrebbe preso per un anno, a pelar patate. Ma è un mestiere durissimo, si lavora sempre in piedi, senza contare l’ansia di riempire il ristorante e la gelosia di chi prende la stella Michelin senza che tu abbia riconoscimenti. Così iniziai la mia gavetta nel giornalismo sportivo, al Corriere della Sera, per tornare poi a scrivere di cucina.
Quanto conta la curiosità per un giornalista?
È la leva del mestiere. Lo è stata nei miei 30 anni al Giornale e l o è tutt’ora. Un aneddoto: era il 1981 quando l’avvocato Gianni Agnelli subì un grave incidente sciistico a St. Moritz che gettò i giornali nel panico. Scoprimmo solo la settimana successiva che una collega era stata testimone oculare di quanto accaduto. Le chiedemmo perché non ne avesse scritto e rispose che era in ferie. Ecco, se manca lo spirito del giornalismo è tutto inutile. Serve curiosità anche per scoprire i migliori chef, per anticipare gli altri e capire se oltre il talento c’è la testa. Il giudizio dev’essere il tuo, non della guida Michelin che, a volte, sottovaluta le capacità, come nel caso di Riccardo Camanini o Antonia Klugmann.
Cosa ti incuriosisce della cucina degli altri Paesi?
Quando avevo 18 anni le scelte etniche erano la mozzarella di bufala o il pesto, e dovevi viaggiare per assaggiare questi prodotti. Oggi la globalizzazione consente di gustare tutte le specialità del mondo, anche se l’omologazione appiattisce. Tanti giovani cuochi non conoscono le cucine regionali italiane e copiano invece, per moda, celebri chef sudamericani o scandinavi. Se sei italiano devi conoscere la storia culinaria del Paese. La pasta non è nostra, come il riso, ma ne abbiamo inventato la cottura al dente. Poi con logica puoi anche inserire ingredienti del resto del mondo, per aggiungere forza e struttura. La cucina italiana è una questione culturale ed emotiva che prende forza dalle origini casalinghe e dalle trattorie. L’alta cucina è un fatto più recente, dove non sempre il prezzo più alto determina la migliore qualità, o viceversa.
Paolo Marchi e Claudio Ceroni © onstagestudio.photo
Da giornalista sportivo hai narrato le gesta di grandi campioni. Ti occupi ancora di questo settore?
Qualche anno fa ho provato a seguire una gara di sci a Madonna di Campiglio, ma non mi sono riconosciuto, troppo show business. Negli anni ’80, allo stadio comunale di Torino, Giovanni Trapattoni accoglieva i giornalisti appoggiato alla porta dello spogliatoio, dove si entrava per parlare con i giocatori. Era tutto molto più umano. A Roma, Paulo Roberto Falcao ti spiegava le tattiche utilizzate in campo mentre si rilassava nella sua jacuzzi. Carl Lewis lo intervistai in un motel all’imbocco dell’autostrada Milano- Genova, dove alloggiava, dopo un meeting di atletica dove aveva raggiunto risultati pazzeschi. Insomma, se nasci in un’epoca ne sei figlio. Oggi c’è troppa omologazione, anche nel giornalismo enogastronomico: manca l’identità. Capita di veder uscire testate diverse con lo stesso articolo, che parla degli stessi piatti, persino con le stesse foto. Un minimo di fantasia, insieme a un reale spirito critico, non guasterebbe. Certo è difficile quando chi si occupa della comunicazione di un ristorante ne scrive anche la recensione.
Com’è nato il congresso internazionale di chef Identità golose?
Partecipando a Lo mejor de la gastronomia, organizzato in Spagna da Rafael García Santos, ho visto i nostri grandi cuochi in platea, quasi delle comparse rispetto all’evento. Stessa cosa a Madrid Fusion, altra celebrazione nazionale. Era necessario portare l’Italia al livello che merita in questo settore. Identità golose è nata così, con Ceroni abbiamo voluto reagire per dare ai cuochi italiani una casa dove esporre le proprie idee. A Milano vengono moltissimi chef stranieri a portare testimonianze importanti, ma la matrice è italiana.
Oggi esiste anche Identità golose hub. Di che cosa si tratta?
È uno spazio che propone la rotazione dei migliori chef del nostro Paese consentendo di degustare i loro piatti nel centro di Milano. Un vantaggio anche per la città. Un luogo che mi consente di ritrovare la mia passione per i fornelli, anche se non so ancora preparare la maionese.
Tuo figlio segue le orme del padre?
Ama questo settore, ma senza favoritismi. È diventato cameriere a Identità golose hub dopo aver superato il colloquio con il responsabile del personale. Dobbiamo imparare dagli americani: nella famiglia Ochs, proprietaria del New York Times, hanno cominciato tutti pulendo le rotative.
Il miglior cuoco di sempre?
Nel corso del tempo Marie Antoine Carême, Auguste Escoffier e Gualtiero Marchesi. Oggi Ferran Adrià, Nadia Santini, che incarna la tradizione italiana portata avanti dalle donne, e Massimo Bottura, che ha portato l’Italia nel mondo.
Qual è il profumo della tua infanzia?
Quello della cotoletta alla milanese chiamata Wiener Schnitzel, viste le origini austroungariche della mia famiglia. Con mia nonna comasca-milanese sento ancora il profumo del grande stracotto di carne che serviva con il purè di patate.
Piatto preferito?
Il pollo arrosto intero. È vario, una metafora della vita. Quando arrivi al petto capisci che, anche in una giornata perfetta, può arrivare una brutta notizia.
Articolo tratto da La Freccia