In cover, Lago di Como © Nikokvfrmoto/Adobestock
«Questo è “quel ramo del Lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi”». Esordisce così Cristian, mentre tira a mano la rete messa la sera prima. Sono le sei del mattino, l’appuntamento è categorico, altrimenti il pesce, impigliato per troppo tempo, cambia colore. Bellagio all’alba mi regala una passeggiata indimenticabile a piedi sul lungo lago. Un imponente abbraccio delle Alpi e delle Prealpi mi dona una sensazione di protezione, mente l’aria frizzante che spira dal Lago di Como si attacca al viso.
Neanche il tempo di fare colazione e vedo quest’uomo dalla faccia buona e simpatica già pronto sulla sua barchetta blu, consumato dal tempo. Poche parole mentre inizia la nostra navigazione, viso rivolto a prua e mano ferma sul timone. Nel silenzio mi godo i colori del lago che cambiano, la montagna che ci si specchia dentro e le meravigliose ville rinascimentali. Potrei stare per ore in silenzio a godermi tanta bellezza. Il respiro è quieto, il battito del cuore si calma e qui io non sono più io, sono tutto anima in stretta connessione con la bellezza del creato.
«Ci siamo», esclama Cristian, che di cognome fa Ponzini, pescatore custode nonché oste e titolare di un ristorante. All'improvviso smette di essere silenzioso e pacato. Si alza in piedi, è altissimo, mani e piedi grandi, parlata accelerata e movimenti veloci di chi il mestiere lo conosce davvero. Da quel momento in poi, un ciclone si abbatte sulla mia giornata: Cristian è un vulcano di idee e racconti. Inizia a parlarmi del padre Silvio, anche lui pescatore, e di quando lo accompagnò per la prima volta in barca, all’età di tre anni. Prosegue con il racconto di quando posò la prima rete, un mix di nostalgia e consapevolezza della sua esistenza in questo mondo come abitante del lago.
Il pescatore Cristian Ponzini
Un pescatore potrebbe raccontarne una al giorno, tra di noi circola una bella energia e io sono affascinato dalla sua maestria nell’eseguire azioni che sembrerebbero facili ma che possono esserlo davvero solo se c’è esperienza. Mentre è intento a fare mille cose contemporaneamente, Cristian ricorda anche la prima delle tante avventure che ha vissuto. «Quando avevo sette anni ho accompagnato mio padre nella posa delle reti al centro del lago, ma un vento improvviso ci ha sorpresi al largo. Non riuscivamo a tornare a Bellagio, il vento ci portava via, e la sensazione di impotenza di quel momento non la dimenticherò mai. Ma, come per tutte le cose che per fortuna si possono raccontare, siamo stati salvati da amici pescatori, finiti a Varenna e rincasati sani e salvi parecchie ore dopo».
Cristian inizia a tirare la rete. Mentre lavora mi racconta di come a 16 anni ottenne un permesso scolastico speciale per poter seguire le lezioni dalla tarda mattinata, essendo impegnato nel ritiro delle reti sin dalle prime ore dell'alba. È orgoglioso e fiero del suo lavoro, lo fa con passione e si evince da ogni sua parola detta e non detta. «Questo lavoro lo fai se hai passione. Impegno e dedizione sono sempre stati i punti fermi nella mia educazione e ho dovuto spesso sacrificare i momenti di svago e divertimento per il lavoro che sin da piccolo ho sentito il dovere di portare avanti. Sai quante volte non sono andato a giocare con i miei amici per venire a lavorare?».
Non c’è tanto pesce secondo Cristian, si lamenta un po’ come tutti i pescatori del mondo ma è ottimista e sempre sorridente. «Non è stato facile seguire mio padre nella pesca poiché entrambi avevamo due caratteri forti e la differenza generazionale, dopo un po’, cominciò a essere evidente. Così a un certo punto ho ideato un metodo per meccanizzare la pesca professionale nelle acque lacustri e far sì che una singola persona fosse sufficiente per il ritiro delle reti. La loro finezza, infatti, rende indispensabili due persone a bordo: una che salpa le reti e l'altra che accompagna la barca per evitare che il suo peso rompa il filato. Ma io, grazie a un motorino elettrico, ero libero di andare a lavorare da solo».
Bellagio (CO) © Freesurf/Adobestock
La prima rete è stata tirata: poco pesce, in effetti. Accende il motore e andiamo. Mi invita a invocare la fortuna altrimenti sarà difficile dar da mangiare agli ospiti del ristorante, un’osteria evoluta dove non sono i clienti a decidere cosa mangiare, ma il lago. La pesca stabilisce l’offerta culinaria da proporre agli ospiti: si mangia ciò che si riporta a riva. Ci dirigiamo verso la prossima rete, il lago è calmo e pulitissimo.
«Il dogma fondamentale è servire solo ed esclusivamente pesce del Lago di Como, è per questo che ho realizzato un progetto di tracciabilità del pescato, ossia isolare il genotipo del lavarello e del pesce persico locale per evidenziarne le caratteristiche e garantire la provenienza del pescato. Lo scopo è creare dei reagenti che, a contatto con queste peculiarità uniche a livello di Dna, cambiano colore su una cartina di tornasole. Sono quasi 15 anni che ci battiamo per ottenere questa tracciabilità».
La barchetta si ferma per la nuova pesca, guardo le operazioni probabilmente ripetute per anni allo stesso modo e penso all’obbligo che abbiamo di prestare attenzione a questi comportamenti virtuosi, quasi un dovere nei confronti delle generazioni future. Si ricomincia a tirare la rete, in questa zona va un po’ meglio. Cristian prende un pesce e me lo mostra dicendomi: «È un misultìn, un missoltino, del Lago di Como, cioè l’agone essiccato e salato al sole. Oggi a pescarlo siamo rimasti davvero in pochi, questo mestiere non è remunerativo e il pescato arriva da altre zone a un prezzo sicuramente più competitivo. Ancora meno sono rimasti coloro che tramandano l’arte dei missoltini essiccati naturalmente, come prevede la tradizione».
Anche questa rete è stata tirata e mi sembra che non sia andata proprio male. Sono stanco, non sono abituato e ora ho anche un po’ di appetito visto che non ho avuto tempo per la colazione. Torniamo a riva, aiuto per quel che posso a sistemare la barca, mi affanno nel tirarla su e sistemarla al meglio anche per “guadagnarmi” la merenda. Ma, proprio mentre pregustavo di assaggiare il pescato, Cristian mi ordina di aiutarlo a togliere dalla rete tutti i pesci e davvero non è un’operazione facile.
Manca un ultimo passaggio, poi finalmente a tavola: dobbiamo sfilettare il pesce non senza avergli prima toltole squame e qui Cristian si illumina orgoglioso, sorridendo sornione. Si aspetta la domanda che non gli faccio, mi guarda, sorride ancora, capisco che ha voglia di dirmi qualcosa e gli faccio un gesto con il capo invitandolo a raccontare.
Non se lo fa ripetere due volte e mi dice con grande orgoglio: «Grazie a una vecchia macchina per fare la pasta, un po' rivisitata, sfilettiamo il pesce in parti micro, per rendere le lische impercettibili alla lingua umana. La famiglia dei cavedani, per esempio, ha delle piccole lische che non possono essere eliminate tramite una sfilettatura normale. La lingua umana percepisce la lisca a 40 micron, ma noi lo sfilettiamo a 35 così che il cliente non possa accorgersi della sua presenza». Lo guardo, gli sorrido, sono felice di averlo incontrato, è energia pura. Se ce ne fossero di più come lui, i nostri borghi sarebbero migliori. Sta aspettando che gli dica qualcosa, è fiero, lo accontento ed esclamo ridendo: «Sei stato bravo, ora però andiamo a mangiare».
Articolo tratto da La Freccia
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21 ottobre 2021