Informare emozionando

Il giornalismo sportivo per Zazzaroni, direttore del Corriere dello Sport

In cover, Ivan Zazzaroni © Hasselblad H6D

01 febbraio 2019

 

La Freccia a tu per tu con Ivan Zazzaroni, direttore del Corriere dello Sport - Stadio. Giornalista di lungo corso, oltre che uomo di sport e di spettacolo. Ormai un brand, protagonista di una comunicazione multimediale che spazia dalla tv alla radio, dalla carta stampata al web e ai social media. Comunicazione empatica, professionale e mai banale. Zazza ci accoglie con la sua schietta esuberanza e con quell’invidiabile, fluente capigliatura, diventata il suo inconfondibile marchio.


Cos’è per te, Ivan, il giornalismo sportivo?
Qualcosa che richiede, a chi lo deve interpretare, una natura e una formazione sportiva. Perché senza è molto difficile raccontare la passione e le emozioni dello sport.


E tu questa formazione l’hai avuta…
Io sono cresciuto nello sport, con la testa nel calcio. Ho vissuto le emozioni di un incontro, quelle della vigilia, conservo il distinto ricordo di tante situazioni tecniche e agonistiche, con tutta la loro intensità. Alcune mi succede di riviverle in sogno ancora oggi, 40 anni dopo. Ne parlavo giorni fa a dei giovani calciatori che stavano per iniziare un torneo: «Assaporate ogni momento di questa vostra esperienza e fatene tesoro, perché vivrete sensazioni uniche per forza e autenticità».


Insomma, il giornalista sportivo è una figura a sé?
Sotto molti aspetti è proprio così. Ecco, un giornalista sportivo può poi dedicarsi brillantemente alla cronaca, al costume, alla politica, ma il contrario è ben più difficile. Posso fartene tanti di esempi, da Sergio Zavoli a Cesare Lanza, da Antonio Ghirelli fino, in tempi recenti, a Giuseppe De Bellis. E, ancora, Massimo Gramellini, cresciuto con noi al Corriere dello Sport, come Curzio Maltese. O Giorgio Fattori, un altro grandissimo esempio, e così Maurizio Crosetti.


Insomma, la teoria non basta.
No, il linguaggio, la mentalità, la passione non puoi fartele venire, ce le devi avere dentro. Come la conoscenza delle dinamiche, che non sono semplici. Poi il percorso continua. Io, come tanti altri colleghi, mi sono formato all’estero, incontrando e confrontandomi con i più grandi, da Platini a Pelé, fino a Maradona. O Roberto Baggio, che è diventato per me come un fratello. Era il mio idolo assoluto e mi ha regalato emozioni che soltanto chi è nato nel calcio può comprendere. Poi allenatori come Rinus Michels, inventore del calcio totale dell’Olanda di Cruijff, o Fabio Capello e Guy Thys.


E da come ce ne parli si percepisce quanto siano stati coinvolgenti questi incontri.
Ma sì, per me era una roba pazzesca, soprattutto i primi anni. E se anche poi è subentrata inevitabilmente un po’ di routine, restano sempre esperienze meravigliose. Ma solo se davvero ti emozionano puoi emozionare gli altri, scrivendone. Ovviamente occorrono capacità e buoni maestri, e io ne ho avuti di fantastici, che ti insegnano a incanalarle bene.


Cos’è lo sport?
È una cosa seria, perché ha una capacità di coinvolgimento senza eguali. Se togli le emozioni che possono darti la famiglia e l’amore, non c’è altro che riesca a emozionarti e a farti sentire vivo più dello sport. Ecco, lo sport fa sentire vivi, praticandolo ancora di più, vedendolo meno, però è qualcosa di vivo e gioioso. Molti dirigenti non lo capiscono e con le loro "battagliuncole" lo stanno ammazzando.


Perché?
Perché è diventato, il calcio in particolare, sempre più un fatto economico, finanziario. Si è smarrito il lato ludico, quello più genuino. Forse anche noi abbiamo sbagliato nel linguaggio, quando dicevamo: «Se la squadra fallisce l’accesso alla finale perde 100 milioni di euro». Dovevamo limitarci a parlare delle conseguenze sul piano sportivo. Quando abbiamo reso tutto economia, ci siamo allontanati dall’essenza vera del calcio.


Che però è più gioco che sport, vero?
Il calcio è gioco, sì, certo. Lo disse anche Gianluca Vialli, un tempo. È un gioco, che contempla quindi i bluff, come la simulazione, atteggiamenti che spetta agli arbitri frenare e sanzionare. Comunque nel gioco cerchi sempre di vincere provandole tutte, poi hai dei giudici che decidono se hai fatto bene o male, se puoi farlo o no, c’è un regolamento, ci sono delle norme. Però il calcio è gioco.


Che dovrebbe essere, appunto, sinonimo di allegria. Siamo nel periodo di Carnevale, tema che trova ampio spazio su questo numero della Freccia...
Sì, il calcio dovrebbe trasmettere gioia, e la trasmetteva, poi sono intervenuti prepotentemente questi condizionamenti economici, i fatti di violenza e altri episodi che lo hanno reso molto meno divertente e allegro.


A proposito di violenza, periodicamente se ne torna a parlare per gravi fatti di cronaca. Non c’è rimedio?
Ci sarebbe, ma non servono convegni, tavoli, provvedimenti. La realtà è che manca la volontà di risolvere il problema alla radice.


Perché?
Perché l’ultratifo vale circa 40mila persone, ossia 40mila voti. Un elettorato attivo, sia di estrema destra sia di estrema sinistra, di cui una certa cattiva politica ha bisogno, e che quindi protegge. Quando deciderà di farne a meno, il problema si risolverà in breve tempo.


Spiegati meglio.
Questi ultras li conoscono tutti, ma i questori non hanno gli strumenti, e anche se li prendono due giorni dopo sono fuori. Il Daspo per un ultra è diventato una medaglia, se ne hai tre sei un fenomeno. Adesso c’è addirittura un progetto di guerriglia, con alcuni gruppi che si uniscono per andare contro le forze dell’ordine.

Ma l’informazione avrà qualche responsabilità o può comunque fare qualcosa?
Quel mondo lì non ci ascolta neppure, ha trovato strumenti di comunicazione suoi, attraverso la Rete, sui social. In questo contesto noi giornalisti al limite siamo dei nemici che non vanno ascoltati, oppure bersagli, ma abbastanza insignificanti, perché alla fine non vogliono e non hanno necessità né di leggerci né di relazionarsi con noi.


E anche qui i giornali battono in ritirata.
Il mondo della comunicazione è in continua trasformazione. Che fare? Dobbiamo cambiare, e farlo in fretta. Bisogna lavorare su noi stessi. Io 16 anni fa ho cominciato a fare questo. Una scelta dolorosa all’inizio, ma azzeccatissima. Venivo da 22 anni di giornali, con tre direzioni. C’è chi mi ha sostenuto, come Milly Carlucci, Paolo Beldì, Simona Ventura, così ho iniziato a fare televisione, radio e Rete. E ho conosciuto un’altra realtà, ho costruito un brand che oggi mi permette di comunicare con efficacia.


L’esperienza di Ballando con le stelle ti ha poi dato ulteriore visibilità…
Ballando mi ha regalato in questi ultimi 11 anni l’allegria che mi è mancata con il calcio. E l’affetto e l’entusiasmo di un pubblico trasversale, di tanta gente che incontro nei più svariati contesti. Sui social sono seguitissimo ma pure odiatissimo, il che è anche abbastanza normale quando parli di calcio. Però è un mondo diverso da quello che incontro per strada. E io mi diverto a provocare, e selezionare. Getto l’amo, e abboccano in tanti. Ho bloccato 20mila profili, in pochi anni.


Torniamo al tuo ruolo di direttore di giornale. La crisi della stampa sembra irreversibile…
È una partita che diventa ogni giorno più difficile. Il web ti porta la pizza a casa. Un’informazione limitata e scarnificata, ma che ai più basta. E ti arriva gratis e in tempo reale. L’approfondimento ormai è seguito da pochi, purtroppo. Le edicole chiudono, perché non ci sono più margini remunerativi. Senza calcolare poi che già nelle prime ore del mattino sul web e nei social trovi già i nostri pezzi, addirittura commentati. Si tratta di un furto su cui il legislatore, europeo e nazionale, deve intervenire, anche con una sorta di Siae dell’editoria.


Al Corriere dello Sport che strategie state adottando?
Cerchiamo di realizzare qualcosa che ci contraddistingua dalla Rete, giocando su tagli diversi, titolazioni, opinioni non scontate, qualità, autorevolezza. Però, come tutti, giochiamo contro il tempo. Quel che non dobbiamo fare è cadere nell’errore di copiare soluzioni altrui, di altri Paesi, perché non siamo tutti uguali. Non siamo uguali agli inglesi, come esigenze e qualità della vita. Noi sul superfluo siamo fenomeni. Anche gli americani sono diversi da noi, hanno province molto più estese dove un giornale può teoricamente vendere ancora tantissime copie.


E siamo diversi anche come fruitori dei media e degli eventi sportivi?
Sì, noi italiani abbiamo bisogno di eventi, di stimoli forti, da consumare in fretta: la grande partita, il mondiale, la finale dei 100 metri di atletica. All’estero no, negli Stati Uniti ogni partita dell’NBA è seguitissima, anche la più insignificante, così come il calcio in Inghilterra. E poi abbiamo bisogno di interpreti e miti che ci appassionino: Alberto Tomba, Valentino Rossi, la Ferrari.


O un grande del ciclismo, come Marco Pantani, a cui hai dedicato un libro.
Scritto con Davide Cassani, che aveva corso insieme a Marco, e Pier Bergonzi, che ha sempre scritto di ciclismo. Io ho fatto un po’ da collettore. Ma la vita di Marco e i suoi ultimi giorni erano già un romanzo: il successo, la droga, le donne, Cuba, la morte misteriosa, l’inchiesta. Tant’è che il libro è diventato poi anche un film, prodotto da Rai1.


Ti rivedremo presto anche in tv?
Credo che mi vedrete di più, e più spesso, in stazione e su qualche Frecciarossa tra Roma e Milano, o tra Roma e Napoli, dove ho una mia trasmissione televisiva. Pensa, a fine gennaio avevo già accumulato i punti per la CartaFRECCIA Platino. Dovreste dedicarmi una carrozza, ad honorem. Ma sì, una carrozza Zazzaroni, dove si parli di sport, quello che emoziona, sinonimo di vita e di sana passione.

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