Foto: Augusto Bizzi

Spinge fuori le parole una dietro l’altra, rapidissime. Le fa arrivare dirette, puntellandole di ironia e accompagnandole con risate limpide. Bebe Vio sembra tirare di scherma anche quando parla. La sua energia incontenibile, che in gara scorre lungo il fioretto, lontana dalla pedana fuoriesce con la stessa potenza. La incontriamo nello spazio esterno di un locale a Trastevere, a pochi passi da dove vive e frequenta l’università. Mentre racconta del suo countdown per le Paralimpiadi di Tokyo di agosto, sgranocchia gallette, invia messaggi, saluta i fan, chiacchiera con gli amici di passaggio. In ogni sua frase compare un desiderio, fa capolino un progetto, si materializza una sfida. E, nonostante sia lanciata verso innumerevoli obiettivi individuali, vuole far volare in alto anche i sogni degli altri.

 

Come ti stai preparando per Tokyo?

Rio 2016 è stata la mia prima Paralimpiade, l’ho presa come un viaggio alla scoperta di quello che potevo e volevo fare. All’inizio nessuno pretendeva nulla da me. Ero consapevole del fatto che avrei vissuto emozioni forti e difficili da gestire. Alla fine in Brasile ho vinto una medaglia d’oro e una di bronzo nella gara a squadre, quando non dovevamo nemmeno qualificarci. Una sorpresa pazzesca. Tokyo invece è tosta, perché arriva dopo le vittorie del Mondiale, della Coppa del mondo e dell’Europeo. Non ci dormo la notte, ho fatto partire il conto alla rovescia quando mancavano mille giorni. Ho cominciato a lavorare di più con il preparatore atletico e il fisioterapista. A breve praticherò anche una specie di pilates per sciogliere determinati muscoli. Gli orari di allenamento sono triplicati rispetto al normale. 

Hai deciso di gareggiare con la doppia arma, cioè anche con la sciabola. Come sta andando?

Ho iniziato la settimana prima del Mondiale in Corea dello scorso settembre, e infatti non è andata benissimo. Poi, a novembre, c’è stata la Coppa del mondo ad Amsterdam, dove sono leggermente migliorata. Ora manca solo la terza Coppa del mondo a Budapest (a metà febbraio, pochi giorni dopo la nostra intervista ndr). Nella scherma in carrozzina quasi tutti competono con due armi e per le qualificazioni alle Olimpiadi si considera la media delle posizioni nei due ranking. Avendo io un punteggio altissimo nel fioretto, riesco a sfangarla anche con la sciabola. Per me questa è una dimensione completamente nuova, non si tratta di perfezionarmi come nella mia specialità ma di imparare da zero: cambiano, per esempio, la distanza con l’avversario e i punti in cui toccarlo. Nella sciabola valgono tutte le zone del busto. Infatti, nella prima gara, ho preso talmente tante zaccagnate in testa che alla fine ho dovuto buttar giù sette antidolorifici.

 

Sei già andata più volte nella capitale giapponese. Spedizioni per studiare il nemico?

Sono stata cinque volte per i progetti degli sponsor. Toyota è quello principale di Tokyo 2020, poi sono stata ingaggiata dall’operatore di telefonia mobile Docomo. Con loro abbiamo portato avanti un lavoro di sensibilizzazione: nella cultura giapponese c’è la convinzione che, se nasci disabile, è perché ti sei comportato male in una vita precedente. Persistono un sacco di pregiudizi e i ragazzi con disabilità frequentano scuole riservate. Abbiamo realizzato le prime pubblicità e già vedere me come testimonial di un’azienda è rivoluzionario in quel Paese. Poi lavoriamo a campagne ed eventi per promuovere la cultura paralimpica: i primi risultati tangibili sono i biglietti sold out per le Paralimpiadi.

 

In cosa consiste il progetto Fly2Tokyo ideato dalla tua associazione, Art- 4sport? Art4sport è stata fondata nel 2009 dai miei genitori per fornire a bambini e ragazzi amputati tutto il necessario per praticare sport: stampelle, protesi speciali, carrozzine. Al momento ne fanno parte 35 persone che vanno dai tre ai 30 anni. Ci alleniamo sparsi in tutta Italia e, periodicamente, facciamo dei ritiri insieme. Fly2Tokyo è un’iniziativa che vede dieci atleti dell’associazione, compresa me, provare a

qualificarsi per le Olimpiadi. Abbiamo a disposizione un team di professionisti – nutrizionista, preparatore, fisioterapista – che ci segue nel nostro percorso. A ogni modo, il fine è anche quello di far conoscere le storie di altri sportivi come noi. Abbiamo stretto una collaborazione con RaiPlay per creare un format televisivo. Al Comitato italiano paralimpico arrivano un sacco di richieste da parte di media e aziende per me e per Alex Zanardi, ma non esistiamo solo noi. Molti mi dicono: «Eh, ma tu ce l’hai fatta». All’inizio, fisicamente non c’era molto, se non le protesi. E non avevo mai raggiunto grandi risultati. Ho avuto la fortuna di incontrare persone che hanno creduto in me. Quindi il mio scopo, adesso, è supportare i giovani di Art4Sport per aiutarli a realizzare i loro sogni che, magari, non coincidono con le Olimpiadi, ma consistono semplicemente nel tornare in campo o nel cambiarsi nello spogliatoio insieme a tutti gli altri. 

La 32esima edizione dei Giochi Olimpici sarà la più sostenibile di sempre. Tu nel quotidiano sei attenta all’ambiente?

Io, in realtà, sono di plastica (ride, ndr). Nel mio piccolo, però, faccio la differenziata, uso la borraccia, non butto niente a terra. Ho visto le foto del villaggio olimpico, è tutto in legno. Gli elementi per costruirlo sono stati regalati da alcune municipalità giapponesi. Una volta smantellata la struttura, verranno restituiti ai donatori per realizzare nuove opere. I letti degli alloggi saranno di cartone: immagino già la scena del mio preparatore atletico, enorme, che si sdraia e smonta tutto.

 

Come concili l’università con la scherma? Bello saltare le lezioni con la scusa delle Olimpiadi…

Al di là delle giustificazioni che sicuramente non sono banali, è un po’ un casino. Cerco di limitare le assenze al periodo delle gare. Però ho la fortuna di fare due cose che mi piano: praticare sport e studiare. Sono iscritta al corso di laurea in Comunicazione e Relazioni internazionali alla John Cabot University di Roma.

 

Come mai hai scelto di trasferirti nella Capitale? In realtà all’inizio propendevo per Milano ma, conoscendomi, sarei andata solo alle feste. Tra l’altro io vivo in tuta e non mi trucco, mi avrebbero guardata troppo male. A parte questo, sono un’atleta delle Fiamme Oro e qui ho la fortuna di potermi esercitare tutti i giorni in caserma. Ero venuta anche per un allenatore che poi, però, ha accettato un’offerta di lavoro in America. Dopo il Mondiale in Corea ho cambiato tutto il team: allenatore, preparatore atletico e fisioterapista. E così, a ridosso di Tokyo, è stato abbastanza traumatico. Ma ho trovato una squadra fantastica, a parte il fisioterapista che lavorava per la Lazio mentre io tifo per la Roma. Il mio nuovo giovanissimo coach, Simone Mazzoni, ha capito il mio modo di tirare, molto diverso dall’ordinario: di solito si usa il polso, che io non ho. Simone mi ha raccontato che qualche sera fa era con la fidanzata e, all’improvviso, ha iniziato ad agitare il braccio in modo strano. Lei gli ha chiesto cosa stesse combinando e lui ha risposto: «Devo ragionare su alcuni movimenti per Bebe». Infine, c’è il preparatore che viene dal rugby, anche lui fantastico. Io mi sono sempre dedicata allo sport, ma loro mi stanno trasformando in un’atleta al 100%. Ne sono felice, qualsiasi risultato otterremo. 

Tu hai fatto della tua disabilità un punto di forza, ma molti la vivono come un ostacolo. Che cosa serve, secondo te, per rendere effettiva l’inclusione?

La mentalità sta cambiando, sia nella società sia tra le persone con disabilità. Prima veniva nascosta, anche dalle stesse famiglie, e compatita. Se guardo alla mia storia, è stata realizzata una Barbie con le mie fattezze, sono stata stata inserita nel libro Storie della buonanotte per bambine ribelli 2 (Mondadori, 2018) di Elena Favilli e Francesca Cavallo, sono finita sulla copertina di un sussidiario scolastico dove, tra le pagine, si trovano i termini protesi e amputazione. Prima erano un tabù anche le parole, i bambini avevano paura dei disabili, della carrozzina e degli arti artificiali. Oggi invece vengono da me, mi danno la mano e me la tirano via. Addiritturail fratellino del mio migliore amico fa gli scherzi ai turisti: molla le mie braccia sui loro tavoli e poi scappa via.

 

In un’altra intervista alla Freccia hai detto che sei sempre felice, ma t’infuri pure facilmente. Cosa c’è nella tua classifica della gioia e in quella della rabbia?

Nella prima ci sono la famiglia, lo sport e il fatto di vedere qualcuno felice. Mentre mi fanno incavolare le persone che provano pietà per qualcuno e dicono «poverino», e non solo in riferimento a una persona con disabilità. Poi mi manda fuori di testa chi non s’impegna. Per esempio, mia sorella sarebbe brava in qualsiasi sport, ma non ha voglia di applicarsi.

 

Hai scritto libri, hai condotto un programma televisivo, sei testimonial per aziende e campagne pubblicitarie, hai una rubrica su una rivista. Ti manca solo una spedizione nello Spazio con il fioretto…

Però con Alitalia e l’astronauta Luca Parmitano ho guidato un aereo! In realtà vorrei laurearmi e fare un master a New York. Nel frattempo, una volta finite le Olimpiadi, mi piacerebbe iniziare acroyoga e vorrei frequentare un corso da sommelier, visto che ora il mio staff atletico non mi fa toccare l'alcol.

 

La Freccia di marzo 2020