In cover Una terra promessa di Barack Obama, edito da Garzanti, pp 848 € 28
Appassionante, per certi versi commovente, la storia di un ragazzino che diviene Presidente degli Stati Uniti d’America, come un imperatore romano quando Roma governava il mondo.
Alcune grandi direttrici servono a Barack Obama come mappa di lettura di queste 800 pagine scritte su piccoli block notes. La prima cosa che emerge è il potere travolgente della politica, con le sue passioni, le pulsioni, la sua ferocia e l’aspirazione (nelle menti migliori) a una terra promessa da lasciare in eredità alle giovani generazioni. Un corso ininterrotto, duro, disseminato di esami.
Il giovane Obama sentiva la necessità di rappresentare qualcosa nell’America progressista e multirazziale, coglieva il senso disperante delle disuguaglianze sociali e di un Paese senza assistenza sanitaria. E nella politica l’importanza dei collaboratori, dei quali riconoscere la competenza e la lealtà all’uomo e al progetto.
Ma niente sarebbe stato possibile senza il sostegno delle figlie Malia e Sasha e soprattutto di Michelle, una donna a dir poco straordinaria, che non amava la politica. Ma amava a tal punto il suo uomo da diventare un’impeccabile First Lady. Seppure, negli anni pesantissimi della Presidenza, il marito sentisse in lei «una tensione sotterranea, sottile ma costante».
Quando fu indicato alla Convention democratica come candidato alla Presidenza, Obama dovette scegliere il suo vice, Joe Biden: la scelta prudente di un uomo con 30 anni di Senato alle spalle, che conosceva tutte le dimensioni del gioco parlamentare, spietato e crudele, che i repubblicani avrebbero portato avanti.
Il libro descrive bene le enormi difficoltà del primo quadriennio Obama. La battaglia per far approvare una riforma sanitaria decisiva, “dimezzata” alla fine degli scontri, per evitare che milioni di americani rischiassero di morire senza cure. La grande crisi del 2008, in cui il Presidente riuscì a evitare il peggio. E il più grande disastro ecologico, l’esplosione della piattaforma Deepwater, che Obama fu capace di gestire nel migliore dei modi.
Memorabile il capitolo che racconta la decisione d’inseguire e colpire Osama Bin Laden, con il Presidente chiuso nello Studio Ovale, per seguire in diretta le operazioni del commando americano e l’esecuzione del terrorista.
Il filo rosso che percorre tutto il libro è la grande amarezza che pervade il Presidente e Michelle durante l’ultimo volo dell’Air Force One che li riporta a casa dopo l’imprevista vittoria di Donald Trump. Un leader politico, racconta Obama, agli antipodi rispetto «a tutto ciò per cui ci eravamo battuti in otto lunghi anni», un prestigiatore di programmi televisivi e di affari immobiliari, che aveva forsennatamente cominciato a battere l’America affermando che il Presidente non era americano.
Obama fa autocritica nell’ammettere di non aver dato sufficiente importanza a quelle sortite a metà del suo primo mandato, pensando che sarebbero state etichettate come palesi buffonate. Le accuse, infatti, furono subito ridicolizzate, ma Trump le ripeteva e ripeteva e iniziò così l’opera di demolizione del primo Presidente afroamericano, agitando di fronte a un’America conservatrice e impaurita lo spettro dell’uomo nero.
Con Sarah Palin prima e Trump dopo, gli spiriti maligni rimasti ai margini del partito repubblicano finirono al centro della scena, con la loro xenofobia, l’ostilità verso gli intellettuali, le teorie cospirative, l’antipatia per gli afroamericani e gli ispanici.
Due i lasciti dell’ex Presidente: il primo è quasi un presagio, la scelta di Joe Biden, per otto anni alla Casa Bianca, «un uomo buono, giusto e leale», perfetto per arginare la dilagante paura dell’uomo nero. Infine, il senso vero del libro, un invito ai giovani d’America e del mondo a battersi per i grandi valori, a fare la propria parte nella vita politica. Perché, grazie all’impegno politico e sociale delle nuove generazioni, la terra promessa sia un po’ più vicina.
Articolo tratta da La Freccia
In Garfagnana, una storia di ritorni e parole
21 marzo 2021