In un panorama letterario spesso dominato dall’analisi dei legami tra madre e figlia, Emanuele Trevi offre un’insolita e preziosa prospettiva, dando voce e spazio all’introspezione maschile. Nella sua ultima opera, autobiografica, l’autore si immerge nei meandri complessi del rapporto col padre e lo ripercorre mettendo sotto la lente d’ingrandimento alcuni affascinanti oggetti da lui ereditati.
Il romanzo si rivela un intenso viaggio lungo la vita dell’autore, intrecciata con quella del genitore, uno psicoanalista di orientamento junghiano che il figlio considera un personaggio magico. Alla sua morte, gli lascia una casa-studio colma di storia e di oggetti che parlano di lui e delle vite che in quel luogo si sono raccontate.
La narrativa si snoda tra i corridoi della memoria, tocca tracce tangibili di un rapporto complesso e spesso enigmatico, profondamente umano e autentico, evidenziando anche eventi divertenti che conferiscono leggerezza e profondità alla storia.
Gli oggetti diventano simboli incisivi, rappresentazioni di emozioni, esperienze e relazioni. La coperta trafitta da un proiettile tedesco, i quaderni di lavoro, gli album da disegno e persino i sassi levigati a mano rappresentano legami e ricordi.
Attraverso il prisma di questo rapporto paterno-filiale, l’autore scopre la sua stessa identità. Il figlio del “mago” – così Trevi da bambino percepiva suo padre, un personaggio capace di evocare un’aura di mistero e incanto – si confronta con un intricato labirinto di relazioni.
Si presenta, infatti, scompigliato, intrappolato dentro incontri non sempre comprensibili, incastri imperfetti e rapporti che sfuggono alla comprensione immediata. La scrittura, pur evitando di immergersi completamente nel groviglio emotivo, sa guidare il lettore attraverso sottili sfumature, talvolta adoperando un tono apparentemente semplice e persino colloquiale. Ma in questa apparente ovvietà si cela una profondità inaspettata. Il romanzo afferra il cuore, ammalia la mente e stimola una riflessione sulla complessa natura dei legami umani.
L’eredità
L'idea, formulata per gioco, in poche ore di insonnia si era trasformata in una certezza. Quando manca una vera ragione per fare qualcosa, fateci caso, quella cosa diventa facilissima da realizzare. Le forze che governano il destino prediligono apparentemente l'inutile e l'arbitrario.
Avevo dei risparmi, e in qualche modo riuscii a mettere insieme i soldi necessari per comprare a mia sorella la sua parte dell'eredità. In pochi giorni diventai il legittimo proprietario di novanta metri quadri di un'orribile moquette sdrucita, e di tutto il resto, Psiche, la gelosa damigella, sembrava soddisfatta.
Il generale dei Carabinieri era stato l'ultimo oltraggio. Ora poteva continuare a impestare indisturbata, fuori controllo, gli angoli più riposti della casa. Quanto a me, evidentemente avevo realizzato un oscuro disegno, di cui mi sfuggivano sia la forma generale che i dettagli. Non ero forse, in tutti i sensi, un uomo libero? La libertà alla fine della fiera è la cosa meno libera che esista al mondo. Perché noi non sappiamo mai, mai, quello che vogliamo. Per tutta la vita pensiamo di volere delle cose e invece ne vogliamo altre. Questa è la caratteristica fondamentale che ci distingue dagli altri animali, più ancora del riso o del linguaggio. […]
Un giro di giostra
Una volta, quando ancora andavo a scuola mia madre aveva trovato il classico sacchetto d'erba che le madri trovano sotto il materasso dei figli. Aveva chiamato papà imponendogli di aspettarmi in camera mia per farmi una specie di predica al mio ritorno.
Sono convinto che mia madre, che era medico e considerava l'erba abbastanza innocua, abbia scelto questo espediente educativo più per lui che per me: tentava insomma di fargli fare un giro di giostra in questo mondo, nell'improbabile ruolo di genitore allarmato e pedagogo.
Ma non funzionò: non era possibile fargli fare nulla che non avesse stabilito lui di fare. Io rientrai a casa tardissimo, poco prima dell'alba, trovandolo che dormiva nel mio letto, in posizione fetale sotto il lenzuolo tirato fin sopra la testa. Non ce l'aveva fatta ad aspettarmi sveglio, con la sua canonica lista dei danni causati dalla droga.
Non ero meno sbalordito, nel trovarmelo lì che russava, che se ci avessi trovato un marziano, la pelle verde coperta di scaglie e le antenne piegate sul cuscino. Si svegliò a fatica, sulle prime non ricordava nemmeno lui le ragioni della sua presenza nel mio letto. Quando venne fuori la storia dell'erba («Ma che effetto ti fa? – Buonissimo, papà») capii subito il sadismo di mia madre e la questione finì lì. Ovviamente, me la presi con lei: perché aveva dovuto disturbarlo per quella idiozia? […]
Sogni ricorrenti
Mi dicevo che la realtà traballa, poi si assesta: come quando, dopo un lungo periodo passato al buio, si entra in un ambiente molto illuminato, e le apparenze ci mettono un po' di tempo a riacquistare la loro normalità. Evidentemente, nemmeno il figlio del mago, che lo aveva addirittura protetto negli ultimi tempi, e lo aveva adorato fin dal primo sbocciare della coscienza, poteva pretendere di stabilirsi a casa sua senza pagare un qualche tipo di dazio.
Mi venne in mente un fatto al quale avevo sempre dato poco peso: sia prima che dopo la sua morte, nei miei sogni mi appariva invariabilmente ben diverso da quell'uomo mitissimo, distratto, affascinante che avevo sempre conosciuto. Erano, più che sogni, veri e propri incubi, nei quali i suoi tratti deformati assumevano una ferocia bestiale, da alcolista che picchia regolarmente moglie e figli.
Ma c'è di più: in questi sogni ricorrenti mio padre non era solo violento, ma, ancora peggio, risentito: la vita, e soprattutto i figli, lo avevano privato delle sue possibilità, del suo diritto alla felicità, incatenandolo a un'esistenza dedicata a degli ingrati incapaci di provvedere a sé stessi. Quel mostro onirico sprizzava da tutti i pori un rancore paralizzante sconcertante. Tutto questo si accompagnava a un turpilo che chiunque l'abbia conosciuto riterrebbe del tutto incongruo rispetto alla sua figura. Mi dicevo che forse quei messaggi dell'inconscio si facevano strada, in maniera brutale, uno strato arcaico – magari edipico! – dei sentimenti che avevo sempre provato per lui. E cominciai anche a rimpiangere di non avergliene mai parlato.
Ma a che poteva servire? Non ero un suo paziente, e la sua interpretazione sarebbe valsa come quella di chiunque altro. Di una cosa ero sicuro: quei sogni erano l'esatto contrario di ciò che avevo sempre provato al livello della coscienza. E non è detto che la coscienza sia sempre più fessa dei sogni. Mio padre si era meritato, a modo suo, l’amore incondizionato che avevo provato per lui, e l'altrettanta incondizionata ammirazione per la sua unicità.
Vederlo in sogno come un bestione feroce e dolente, oltre che stupido come tutti i risentiti, che tirava pugni ai muri e bestemmiava digrignando i denti, minacciando di annientarmi, non significava affatto, a mio modo di vedere, che quell'amore era malriposto, o eccessivo; semmai, quei sogni parlavano di me, ovvero di quello che vi appariva nettamente, a ragionarci sopra con la dovuta attenzione, come il mio più grande limite affettivo: la pretesa di amare senza conoscere. A forza di pensarci sopra, mentre passeggiavo nella pineta, da qualche anfratto semisommerso della memoria venne fuori un ricordo, appartenente questa volta alla vita reale.
Mio padre aveva delegato a mia madre le incombenze più sgradevoli dell'educazione dei figli, che consistono in prediche, rimbrotti, laboriose elargizioni di permessi. La sua era una sorta di carattere essenzialmente preventivo. Ho sempre saputo cosa gli faceva piacere che facessi. Tutti lo sapevano: io, mia sorella, i gatti. […]
Articolo tratto da La Freccia di febbraio
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