Sono stati premiati sabato 12 ottobre i vincitori della seconda edizione del concorso letterario A/R Andata e racconto. In viaggio…. con amore, l’iniziativa lanciata dal Salone Internazionale del Libro di Torino e dal Gruppo FS, che ha l’obiettivo di premiare racconti inediti di scrittori e scrittrici esordienti dai 16 anni in su. Un modo per rimarcare la vicinanza al mondo della cultura, ai suoi territori e ai sui prodotti.

Tra i vincitori “Nanosomia, le dimensioni dell'amore” di Carlo Junior Desgro. Di seguito il racconto.

 

La mia vita. Tendenzialmente grigia. Con alcune crepe.

Abitavo in una piccola casa di fronte alla piccola stazione ferroviaria del piccolo centro di un paese, piccolo anch’esso, nel cuore del Giappone. Di solito, finivo per sentirmi piccola anch’io. E non per via della mia nanosomia, poiché essere alta solo 115 centimetri non mi ha mai pesato. È che ci provavo a pensare in grande, ma ogni mio sogno sembrava destinato a rivelarsi fatuo. Effimero. Come quelle belle farfalle che vivono per poco. Un giorno, magari, o due. Poi scompaiono. Puff. Chissà, dove vanno a finire.

 

La polissena, il macaone, la sasakia charonda. Mi piace immaginare che continuino a vivere, in un altrove parallelo dai contorni color fagiolo e dal sapore di gorgonzola piccante e mela. Un mondo lontano dalla mia vita tendenzialmente grigia e con alcune crepe. Quelle nelle mie ossa delicate sono meno evidenti di quelle sulla parete nascoste dietro alla credenza. Quelle nelle mie ossa si diramano in tutto il mio corpo e puntano al cuore. Sfiancandolo. Le curo da sempre con pillole di Talmenoxide, che attenua il dolore e rinforza le cartilagini. Tre pillole a colazione, una a mezzogiorno e una prima di andare a dormire. Me le prescrisse il professor Hiroto: di hobby scultore, come suo nipote Ao di cui avevo solo, e tanto, sentito parlare da lui. Almeno fino a quel giorno.

 

«Studente di arte in Europa. Trent’anni di età. Un ciuffo biondo platino cotonato che gli cade a grappolo sul naso» mi diceva «e che ama spostarsi con voluttà e contorcere tirandolo tra pollice e indice, delicatamente, di tanto in tanto». Il professore Hiroto, mostrandomelo in foto, mi spiegava che per lui era come un figlio.

Da qualche tempo Ao era tornato in quel piccolo paese del cuore del Giappone. Quel pomeriggio all’improvviso sentii bussare, mentre fotografavo il ragno violino che viveva nel buco del mio armadio in legno di faggio dove, nel cassetto senza pomelli, custodivo un prezioso vestito di seta rossa a fiori arancioni dentro cerchi blu. Tre tocchi, sicuri e forti, sulla porta. In un orario insolito per le visite. Mi arrestai all’istante. Come un presentimento: chi poteva essere a quell’ora? «Non Aruto» pensai «che passa il lunedì, né Akiko, che viene la sera del venerdì per portarmi libri e mangiare cioccolata aromatizzata. Ci vestiamo da bambole e lei resta a dormire da me». Non poteva essere nemmeno il servizio di lavanderia, né Mei, la mia cugina massaggiatrice. E non poteva trattarsi di Kokoro, il suonatore di shakuachi. Mi avvicinai lentamente alla porta con lo sgabello, e iniziai a salirne gli scalini per arrivare a sbirciare dallo spioncino. Lentamente: non volevo farmi sentire dalla misteriosa persona che attendeva fuori dalla porta un mio «Chi è?». Mi muovevo morbida. Fino a che non arrivai allo spioncino. Avvicinai l’occhio destro alla fessura per controllare chi fosse, sistemandomi delicatamente i capelli appena lavati, ancora profumati di seme di banana, lo shampoo che mi aveva regalato nonno per il mio compleanno di un anno prima, durante i giorni della festa dei koinobori, gli aquiloni a forma di carpa. Finalmente, in cima allo sgabello, riuscivo a vedere chi bussava alla porta. Non me lo spiegavo: come era possibile che fosse lui? Si stava sistemando il suo ciuffo biondo platino cotonato che gli cadeva a grappolo sul naso. Proprio come me lo immaginavo, con quel suo fascino voluttuoso ben oltre quanto non trasparisse dalle foto che suo zio, il professore Hiroto, mi aveva mostrato. Era Ao. Non potevo comprendere perché in quel momento fosse lì, fuori dalla mia piccola casa. Di fronte alla piccola stazione ferroviaria del piccolo centro del mio piccolo paese. Mi sentivo, più che mai, piccola, e no: non per via della nanosomia. Pietrificata, felice.

 

Continuai a non rispondere. Senza aprire la porta. Fingendo che in casa non ci fosse nessuno. Intanto, sull’ultimo gradino dello sgabello, ancora appoggiata allo spioncino, cresceva in me un forte senso di vertigini che mi prese alla testa partendo dalle punte dei miei piedi per poi salire. Le stesse vertigini di quando non prendevo le pillole di Talmenoxide. E quella mattina avevo dimenticato di prenderle.

Troppo tardi: persi l’equilibrio, caddi dallo sgabello battendo la testa sulla maniglia e aprendo così la porta. Ricordo un bernoccolo che iniziava a gonfiarsi poco sopra l’occhio destro mentre le forze venivano meno. A malapena riuscivo a lamentarmi. Che disastro. La cosa più dignitosa che potessi fare fu lasciarmi svenire. Mentre Ao mi fissava.

 

«È che le tue ossa fragili rendono tutto più complicato» mi spiegò il professor Hiroto al mio risveglio. Mi trovavo nel reparto del Pronto Soccorso dell’ospedale. Fuori dalla finestra, la pioggia. Sembrava in colpa per avermi dovuta imbracare con quella tuta in tessuto sintetico di gesso, resina e poliuretano che mi lasciava scoperti solo l’insenatura tra le mammelle, la testa e il piede sinistro. Ero come una piccola mummia. Incredula, con quel bernoccolo che ora era una grossa melanzana tonda e violacea. Mi spostarono nella stanza numero 4 dell’ala sud del secondo piano del piccolo ospedale del paese. Fissavo il soffitto. Ripensavo alla caduta. Alle crepe sulle mie ossa fragili. Alle pillole di Talmenoxide. Al ragno violino. Ai tre colpi che avevano bussato alla porta. Allo sgabello. Ma, soprattutto, ripensavo al suo ciuffo cotonato. Ripensavo ad Ao. «Gli avevo parlato spesso di te mostrandogli tue foto» mi disse il professor Hiroto. Mi spiegò che il pomeriggio del mio incidente Ao, tornato dall’Europa per una vacanza, era venuto per conoscermi e chiedermi di posare per una sua scultura. Potevo essergli di ispirazione, grazie alla mia nanosomia. «Dopo che sei caduta» mi disse il professore Hiroto «Ao ti ha accompagnata all’ospedale. È rimasto nella sala d’attesa mentre noi ti abbiamo imbracata. Se non ti avesse soccorsa tempestivamente, e se tu fossi rimasta solo poche ore in quella posizione, senza il Talmenoxide e con l’emorragia interna che avanzava, beh…»

 

Ao mi aveva salvato la vita. Fuori dalla finestra, intanto, non pioveva più.

Feci qualche giorno di convalescenza, poi il professor Hiroto mi spiegò che sarei potuta rientrare a casa il fine settimana. Avevo appena preso una pillola di Talmenoxide, dopo aver mangiato la porzione di riso e piselli che mi aveva portato Reiko, la caposala dai capelli bianchi come neve e con gli occhi di due colori diversi: si dice “eterocromia”. Adesso, libera dall’imbracatura, me ne stavo sul letto. Mi guardavo le punte dei piedi mentre allungavo le gambe. Serviva a tenere allenate le cartilagini. Quando una voce che proveniva dal corridoio mi sorprese: «Non pensavi certo di passare questo venerdì senza di me? Eccomi, e questa è cioccolata ai chiodi di garofano». Non riuscivo a crederci: era Akiko, col suo accento campagnolo grossolano come le sue cosciotte. Si affacciò all’improvviso nella mia stanza. Avremmo celebrato il nostro rito settimanale, vestite da bambole, immerse tra le pagine di un nuovo libro preso nel negozio della signora Mizuki, un bugigattolo pieno soprattutto di polvere e cianfrusaglie, ma per me e Akiko, da sempre, un luogo magico. Alle spalle della stazione ferroviaria. Dove puzza di urina di gatto.

 

«Tu sei innamorata»: Akiko me lo avrà ripetuto mille volte mentre mi truccava. Era seria e credibile, nonostante un rossetto giallo lucido e la parrucca di capelli verdi lunghi arrotolati come spaghetti di frumento e sale. Vestirci da bambole era la parte più creativa dei nostri incontri rituali. Richiedeva tempo e cura. Stendevamo sul volto cera profumata e pasta bianca, aiutandoci con un pennello per distribuire intorno agli occhi polvere di riso e acqua. Dietro al collo spruzzavamo pigmenti blu lasciando due spicchi di pelle nuda, dopodiché eravamo pronte alle nostre chiacchiere frivole che sarebbero durate fino all’alba. Il professor Hiroto, del resto, aveva appena acconsentito che Akiko restasse a dormire in camera con me quella sera, una delle ultime che avrei passato in ospedale. Fuori, era di nuovo tempo della festa degli aquiloni koinobori. Mi ci aveva portato sempre il nonno a quella ricorrenza, c’ero stata con lui anche l’ultima volta, quando stava male. «Cadi sette volte, rialzati otto volte»: quelle parole furono il suo testamento. Dopo due giorni, se ne andò per sempre, dopo avermi regalato una bottiglia di shampoo al seme di banana. Lo aveva fatto con la pianta cresciuta sulla tomba della nonna, dove adesso è sepolto anche lui. Ne parlai con Akiko. Sentivo la sua mancanza, ma nello stesso tempo sapevo che era presente, in quella stanza, col suo rigore, pure tra le frivolezze di due fanciulle che parlano di questioni di cuore, vestite in quel modo ridicolo, peraltro. Akiko mi pettinava senza smettere di ripetermi: «Tu sei innamorata». E sotto la pasta bianca e la polvere di riso spalmate sulle mie guance arrossivo come un delizioso peperone shishimai, in un’ammissione di innocente colpevolezza. Sì: da quando lo avevo visto bussare alla mia porta e, prima ancora, da quando lo avevo visto in foto. Non pensavo che ad Ao. «E desidero rivederlo» dissi. Scoppiammo in una risata piena di colori, mentre ci guardavamo allo specchio che rifletteva i fuochi d’artificio e le lanterne in volo contro la sagoma della Luna.

Trascorsero due giorni e l’auto del signor Ciro era adesso pronta a riportarmi a casa. Ero ufficialmente guarita. Feci colazione, salutai gli infermieri che mi accompagnarono all’uscita. Chiesi al signor Ciro di fermarci al negozio del sale. Poi, arrivammo a casa. Lì, vicino alla piccola stazione ferroviaria ci aspettava sua moglie, la signora Sakura. Per me erano come genitori, miei vicini di casa da quando ero nata.

 

Lui si era trasferito in Giappone da Napoli per studiare lingue, aveva conosciuto Sakura e non se ne era mai più andato. «C’ è una sorpresa per te» mi dissero, annunciandomi che per quella sera avevano organizzato, con Akiko, una festa per il mio rientro. Sarebbe iniziata alle 20.00, nel piccolo giardino che condividevano le nostre case adiacenti. Presi una pillola di Talmenoxide. Ero felice. Rientrai a casa. Mi sdraiai sul letto. Mi guardai i piedini gonfi. Mangiai una pallina di gelato all’anguria e una coppa di mirtilli rossi e fragole bianche. Programmai la sveglia per le 18.15. Guardai il cassetto senza pomello del mio armadio in legno di faggio. Mi addormentai.

“La frutta, mangiata dopo il Talmenoxide può dare effetti allucinogeni durante il sonno” diceva il bugiardino e io lo avevo dimenticato.

Poco dopo stavo affogando in un lago di aceto di carota, e quando riuscii ad aggrapparmi ai due rami che sporgevano dalla riva quelli si trasformarono in mani rugose delle dita uncinate che mi graffiarono sul braccio destro: erano due spaventose streghe Yamauba. Lasciai la presa, e mentre cadevo nel fiume un eroe con una maschera mi prese sul suo ippopotamo verde che profumava di caffè. Mi salvò tenendomi stretta a lui. Sotto la sua maschera avevo riconosciuto il suo inconfondibile ciuffo cotonato. Si girò, mi fissò, stava per svelarsi, ma il rumore di una sveglia mi fece saltare sul letto, squarciando quell’incubo diventato dolce sogno: era stato tutto incredibilmente reale, come il graffio che mi ritrovai sul braccio destro. Un messaggio di Akiko mi avvisò che stava per arrivare. Erano le 19.00: ci saremmo preparate per la festa. Poco dopo, dentro a quel vestito di seta finalmente tirato fuori dal cassetto senza pomelli dell’armadio in legno di faggio, ero come un bruco dentro a un bozzolo, impaziente di guardarmi allo specchio trasformata in farfalla. Indossai le mie scarpe artigianali in pelle di salmone. Akiko mi sistemò tra i capelli un crisantemo giallo, «Simbolo di ciò che è immortale, come l’Amore» disse. Scoppiammo a ridere. Scendemmo in giardino. C’erano quasi tutti gli invitati: la signora Mizuki con i figli di Kokoro che intanto accordava il suo shakuachi. Poi Aruto e mia cugina Mei. La gatta nera di Ciro, quella con la coda mozzata, si era rannicchiata a palla sotto al tavolo ricoperto da una tovaglia di lino bianco con candele rosse alla ciliegia. Finalmente, arrivò il professor Hiroto insieme a sua moglie Akane. Ero impaziente. Sapevo che non sarebbero arrivati da soli, e infatti con loro, bello come un sole di ghiaccio a mezzanotte, vidi scendere dalla macchina anche Ao. Un vento sottile gli sollevò il ciuffo svelando le sfumature del meraviglioso marrone dei suoi occhi fatto di pandizenzero, cedro e cannella. Poco più giù, le sue labbra piccole e carnose sotto baffi leggeri si schiudevano in un casto involontario invito al piacere. «Finalmente ci presentiamo», mi disse. In quel preciso istante, al centro del giardino, in mezzo a tante persone, per qualche secondo non riuscii quasi a rispondergli. Per me c’eravamo solo noi. Soltanto io e lui. In quel giardino. In quel piccolo paese. In tutto il Giappone. In tutto l’Universo. Soltanto io e quell’eroe che avevo riconosciuto sotto la maschera nel mio sogno di poche ore prima, quando era venuto a salvarmi dalle dita uncinate delle streghe Yamauba. Mi guardava dritto negli occhi, e quei sessanta centimetri di differenza tra le nostre altezze erano solo il più buffo dei dettagli.

 

«Sei un meraviglioso universo in un bicchiere» mi disse Ao spiegandomi di avermi conosciuta attraverso racconti e foto di suo zio. Disse che avrebbe voluto scolpirmi da sempre. Mi trovava speciale nei miei 115 centimetri di altezza. «Mi piacerebbe fare una scultura del tuo corpo così poco ordinario» mi disse accarezzandosi voluttuosamente il ciuffo, mentre beveva un bicchiere di concentrato di umeshu che Ciro aveva offerto agli ospiti. La Luna che si alzava dietro ai tetti delle piccole case, oltre la piccola stazione dove in quell’istante stava passando un treno, rendeva il verde basilico del completo di Ao un bosco chiaroscuro dove desideravo perdermi. Con lui. Qualunque cosa dicesse non riuscivo a non condividere i suoi pensieri, che spiegava con una voce calda come le pagnotte di segale appena uscite dal forno dei gemelli Kazuki. Non riuscivo a non condividere quei pensieri: oltre a un universo in un bicchiere, diceva che ero un’onda dentro a una tellina oppure un prato dentro a un palmo. In quel giardino, in quella piccola casa di fronte alla piccola stazione ferroviaria del piccolo centro del piccolo paese, mentre Ao mi parlava, nel cuore del Giappone, mi sentivo immensa nella mia nanosomia.

 

«Prima di ripartire per l’Europa vorrei fare una scultura che fissi la tua piccola, grande, straordinarietà» mi disse, mentre tra milioni di lucciole che si alzavano sui fili d’erba era arrivata la mezzanotte. Ricordo il suono dello shakuachi di Kokoro e le sagome di Mei e Mizuki mentre Akiko e Akane mangiavano i dolci ai semi di zucca preparati da Aruto. Sakura invece stava assaggiando confettura di momo. La gatta nera dalla coda mozzata le faceva le fusa. Quanto a me, più lo guardavo, più era un tuffo nel morbido e croccante nocciolato dei suoi occhi. Mi parlava di forme, di scalpelli e raspe, e della consistenza dei materiali: onice, bronzo, terracotta, gesso, porcellana, calcare, legno. «La limonaia di zio Hiroto»: prima di andar via, mi chiese di raggiungerlo lì, l’indomani, all’alba, dove mi avrebbe finalmente scolpita.

Disse che avrebbe usato un blocco di ceramica a pasta porosa e io accettai, ma l’unico materiale che desideravo che Ao plasmasse, l’unico corpo su cui sognavo che si posassero le sue mani affusolate come pasta di cecio, ero io.

Trascorsero ore dai primi riflessi del giorno dopo, ad ovest della limonaia del professor Hiroto, da quando Ao aveva iniziato a scavare e modellare su di me quel blocco poroso. Tra le note aspre di germogli di shy shy yuzu ero rimasta a lungo ferma davanti a lui che lavorava. Nel pomeriggio, finalmente, dopo che il professor Hiroto si era fermato a mangiare con noi del tonno tataki, Ao dichiarò ultimato il suo lavoro. Non prima di avere ricoperto la scultura di smalto e polvere di granito. Potevo adesso vedere un’altra me: una bellissima replica del mio corpo dalle proporzioni graziose, fiaccato a volte da qualche crepa nelle ossa e da cartilagini deboli, ma ora, grazie a quel calco, reso solido e immortale. Ao, orgoglioso, mi disse che era la scultura più bella mai fatta e che il merito era stato anche mio. Poi, mentre il riflesso del primo tramonto gli colorava di pesca il ciuffo appena bagnato dalla pioggia mite che aveva iniziato a cadere, aggiunse che quella scultura sarebbe stata il ricordo più bello da portarsi via al suo ritorno, due giorni dopo, in Europa. Quelle parole suonarono inaspettate e crudeli come solo la normalità, a volte, sa essere: non volevo che se ne andasse, non volevo essere risucchiata in quella vita tendenzialmente grigia con crepe più o meno profonde dove ero stata troppo a lungo. Prima di conoscere lui. Adesso, volevo soltanto stargli accanto, ed era il momento di dirglielo, lì, mentre dal prato di salvia e susuki sotto ai mandarinetti dove cadeva la pioggia sottile si alzava un vapore che sfumava le nostre sagome. Lo interruppi, gli chiesi di inginocchiarsi, in modo da potergli parlare guardandolo dritto negli occhi. Ed Ao si arrestò, poi restò in ginocchio, in silenzio. I nostri sguardi si incrociarono. «Ti ho desiderato dalla prima volta che tuo zio mi ha parlato di te» gli dissi, ritrovandomi tutto d’un tratto le sue labbra sulle mie. Un fiore di shy shy yuzu si era posato sui miei capelli profumati al seme di banana. Il vapore agrumato tutt’intorno, intanto, continuava a confondere i nostri profili. «Vieni in Europa con me e restiamo per sempre insieme» mi rispose spiegandomi che era quello che avrebbe voluto chiedermi da sempre. Continuammo a baciarci. In mezzo al profumo e ai colori dei limoni.

 

Dopo due giorni, eravamo in viaggio per l’Europa. Sola andata. Da allora, sempre insieme. Quell’estate avevo vent’anni. Oggi ne ho novanta e ogni venerdì, alle ore 16.15, vengo a portare mazzetti di fiori qui sopra, sulla tomba di Ao, nel piccolo centro di questo piccolo grazioso cimitero italiano dalle aiuole curate, di fronte a una piccola stazione ferroviaria: mi siedo sullo sgabello, guardo la sua foto, recito una preghiera vestita da bambola immaginando di chiacchierare di lui con Akiko, poi me ne sto in silenzio, mentre il vento mite di questo paesino mediterraneo soffia sui miei capelli che profumano di seme di banana. Con le mie scarpe artigianali in pelle di salmone, indossando il vestito a fiori arancioni dentro cerchi blu. Prendo ancora il Talmenoxide. Tutto si incastra e torna, come negli ingranaggi perfetti che usava Hyraki, l’orologiaio dall’occhio di vetro. Ho imparato a riparare le crepe delle mie ossa, a colorare il grigio della mia vita. A sentirmi immensa nei miei 115 centimetri. Grazie all’amore, il vero viaggio che mi ha portato con disinvoltura tra capi opposti del mondo, e, soprattutto, tra i mille pezzi dentro di me, perché ogni mio percorso, mosso sui miei piedini, è iniziato dal cuore, anche se era sfiancato. E continuerà da lì. Raggiungerò Ao. D’improvviso. Puff. Ci ritroveremo nell’altrove parallelo dal sapore di gorgonzola piccante e mela e dal color fagiolo, tra farfalle effimere che volano su di noi.