Sono stati premiati sabato 12 ottobre i vincitori della seconda edizione del concorso letterario A/R Andata e racconto. In viaggio…. con amore, l’iniziativa lanciata dal Salone Internazionale del Libro di Torino e dal Gruppo FS, che ha l’obiettivo di premiare racconti inediti di scrittori e scrittrici esordienti dai 16 anni in su. Un modo per rimarcare la vicinanza al mondo della cultura, ai suoi territori e ai sui prodotti. 

Tra i vincitori “18.12-Pisa Centrale” di Flavia Forestieri. Di seguito il racconto.

 

18.12, Pisa Centrale. È già lì. Lampeggia, corro.

Corro piano perché non mi va, perché tanto che fa se prendo quello dopo. Fa, fa un sacco, perché fa freddo e la gente è cattiva di lavoro, di pensieri, di stanchezza la sera del mercoledì. Corro piano, salgo al fischio. Sono in coda: è strapieno, non ci si muove. Non demordo, io voglio la testa, casa mia. Attraverso i mucchi sospesi di chiacchiere, le telefonate, i fischi delle porte, ni-no nino, tutun. Partiamo. Ancora troppa gente, non mi fermo, voglio la testa, casa mia. Casa mia perché è casa mia da dieci anni. Si fa prima la mattina a Termini, si fa prima la sera a casa. E poi è sempre vuota, perché a nessuno va di camminare. Tranne sul Pisa. Il Pisa è sempre pieno di tutto: di gente pigra che non vuole camminare e di chi vuole la testa, come me.

 

C’è un posto nei sedili a quattro. Uno solo, ma non posso perdere tempo a sofisticare: se non io, quello dopo di me. E io non me la faccio in piedi fino a Ladispoli.

Caldo, mi spoglio. Zaino sotto al sedile. Sollievo alle spalle, il pc pesa. Pesa tanto. Affondo, l’aria abbandona il sedile in un soffio che conosciamo solo noi che ci siamo seduti settemiladuecento volte su quei sedili blu, suppergiù. Guanti, cappello, scaldacollo, tiro su le maniche. Anzi, levo la felpa. Mi guardano male ma chi se ne fotte. Sono loro che producono calore nei loro cappotti. Lavoro? Serie? Leggo? Instagram? Dormo? Cazzo, il telefono nel cappotto, sulla cappelliera. Devo alzarmi, e stiamo già stretti. Gesto meccanico, telefono in mano. Scrollo senza attenzione, ho in mente altro. Davanti, sedile di sinistra, lei. Ha la mia età, non più di trenta. Zaino sulle gambe, sopra il cappotto, stringe tutto al petto, forte, un abbraccio. Sguardo fuori, sul niente da vedere: le decine di binari al buio di Termini che sembrano denti di balena.

 

Scura, occhi bottone, occhiali banali, sguardo no. È triste, come quello che sta guardando, come gli oggetti che la circondano: quietamente triste come una borsa anonima con un vecchio pc dentro, come un Kindle primo modello con la custodia dozzinale della Notte stellata di Van Gogh consumata ai bordi e sporca, come un ombrello comprato fuori dalla metro che sgocciola sul pavimento, un caricabatterie ingiallito e nero che ricarica un cellulare con lo schermo spaccato e la luminosità

altissima. Ma non è vero. Lei è più triste delle cose medie. È triste davvero. È una frazione di secondo: le trema il labbro, strozza una lacrima, che se ne ritorna nell’occhio. Iiiiiii-ic. Ostiense. Fiumana, sardine. Cappotti, caldo, sudore, telefoni, lamenti, chiacchiere: ho preso il treno, guarda in frigo ci dovrebbe essere, ti aspetto all’uscita dietro, Diego è un coglione, no mamma ho palestra, hai fatto i compiti.

Flavia Forestieri

Flavia Forestieri

Lei si abbraccia ancora di più, le guardo le mani. Non ho capito. Riguardo bene. Qualcuno la farà muovere di nuovo, ecco, sì. Sì, sì avevo proprio capito. Un rosario.

La guardo tutta, dalla testa ai piedi. Giovane, non magra, non grassa, vestiti qualunque, scarpe vecchie, zaino che hanno tutti, giaccone in saldo, maglione vecchio, vecchio taglio di capelli. Non sembra una suora, né una di quelle che deve farcisi. Sì, è tutta composta, sì, il maglione è accollato, sì, i vestiti sono un po’ brutti, sì, ma no. Lo so che non lo è. Ma è giovane, avrà la mia età, neanche trent’anni. E stringe un cazzo di rosario di legno nella mano destra, due dita su un… grano? Si chiama così?

Lo sta dicendo adesso. Nella testa. Io non vado a messa da quando ho dieci anni. pretiodorano di incenso e di corrotto. E le parole che dicono non hanno senso. Ma lei, occhi tristi a bottone, neanche trent’anni, la mia età, si abbraccia e prega.

Iiiiiii-ic. Trastevere. Ancora gente. È qui la festa. Ma che dovevo fare io? Lavoro? Serie? Leggo? Instagram? Dormo? Tra poco non prende più. Stasera a casa lavoro. Non è vero, lo so. Ho già gli occhi stanchi, vorrò solo la consolazione del piumone.

Ma questa bigotta che cazzo si prega, cazzo, questa triste bigotta cattolica che avrà la mia età, cazzo, nemmeno trent’anni, cazzo. Ave Maria piena di grazia, reggi governa… no, non la so. Occhi bottone tristi di scatto nei miei. Non me lo aspettavo. Un’esecuzione. Fucilano tutti i mieip ensieri cattivi. Siamo solo i miei e i suoi occhi bottone, le lacrime ben  salde dentro, non cadranno giù. Cadrò solo io. Mi ha scoperto. Distolgo, cellulare, scrollo. Sudo, orecchie calde, battito. Dissimulo. Era pieno di niente in quegli occhi bottone. Un niente che pesa tanto quanto il tutto, ma ferisce il doppio. Chissà che c’era nei miei. Iiiiiii-ic. San Pietro. Vibrazione. «…Sì… alle otto… come, esci? Io… no, ti ho… ok…tra poco non prende più… ok… possiamo parlarne quando tor-… ti prego, io non ce la faccio a…».

 

Galleria. Luce artificiale. Orecchie tappate.

Telefono stretto a morsa nella sinistra, occhi bottone strizzati, testa indietro sul sedile. Lacrima sempre più insistente. Resiste. È stoica, fieramente distrutta. Devono esserci un sacco di lacrime cadute all’indietro lì dentro. Era un filo di voce, un filo di raso verde sottilissimo. Un altro mondo in quel telefono. Un mondo segreto non più privato, che sa tutto il vagone. Il vagone quello attento. Un ragazzo. No, non era una voce da madre, da padre, da fratelli. Un ragazzo, una casa comune, un progetto. Un ragazzo che la fa piangere all’indietro, una fontana di sale che bagna l’esofago e secca il giardino. Un giardino che non cura nessuno. Hanno litigato. Non è la prima volta. Forse lui è abusante. Forse è una relazione tossica. Forse è lei quella tossica. Tossica col rosario? Tossica che prega e si innaffia di lacrime dentro? È per questo che prega.

È lui. “Non ce la fa”. Non ce la fa ad andare avanti? Non ce la fa a perdonarlo? Non ce la fa a…

 

«Ma che noi siamo più stupidi? Io vado dal capotreno»

«Seh, vojo vede’. Che fai, voli?»

«Io vado dal capotreno!»

«Ma vai da chi te pare»

«Maleducata, cafona!».

 

Ci rigiriamo insieme, le vite arrabbiate degli altri non ci interessano poi così tanto. Sguardi incrociati. Non dissimulo. Fucila ancora, ma non riammazzi chi è già morto. Se ne accorge. Abbassa lei. No, non volevo questo. Volevo sapere, parlare, capire, spiegarmi. Ridammi quei bottoni, quei bottoni marrone scuro, fammi vedere quel giardino seccato dal sale. Fine galleria. Telefono. Chiama. Mentre chiama guarda giù, il linoleum impiastricciato sotto ai piedi dentro alle scarpe di cuoio di un tizio ingelatinato con su un completo di nessuna qualità. È sotto a quei piedi, schiacciata, umiliata in quella schifezza. In trappola.

Non risponde. Stende le dita della mano destra, stringe le labbra, richiude le dita a pugno. Occhi chiusi. So dove vorrebbe dare quel pugno, il naso che vorrebbe rompere.

Si muove di scatto, rosario in tasca. Nemmeno Lui ci può fare niente, nemmeno Lui può dargli un cazzotto sul naso. Lui sa solo farla piangere all’indietro, specchiata nella sua debolezza travestita da Ave Maria. Scrolla, schermo bianco specchiato negli occhiali. Non guarda davvero, non legge davvero, come quasi tutti noi. Dovrei farlo anche io, anestetizzarmi coi reel di cucina, senza registrare un singolo fotogramma, mangiare ed espellere pixel. Ma lei è lì, in una bolla logorante di dolore. Nessuno la vede. Nessuno la sente. Eppure pulsa, fiotta a rivoli per il vagone. Il treno corre, 150 km/h, freccia senza bersaglio, ma noi siamo immobili. Emotivamente inamovibili. Il treno corre. Corre ma mi culla. Mi scappa il sonno, il sonno della stanchezza. Le rotaie sovrastano il casino. Buio. Luce.

 

Ladispoli – Cerveteri. Folla che scende.

Gambe si allungano, borse sui sedili accanto. Lei non scende, è ancora lì. Sciolto l’abbraccio col suo zaino, è una donna forte. Lo dicevano già le mani. Ora lo confermano i fianchi e le spalle. È un corpo così diverso dai suoi modi. Cosce strette, mani in grembo, sguardo senza pretese. Potrebbe prendermi, sollevarmi, aprire il finestrino e buttarmi fuori, ma “qualcuno” ha deciso che doveva essere una signorina. Un qualcuno ingombrante. Ha deciso anche che i colori accesi non fanno per lei. Che i pantaloni hanno scuri, per carità, sennò si vede che mangi le patatine pepe rosa e lime davanti alla tv mentre guardi per la settima volta 50 volte il primo bacio da sola mentre il tuo ragazzo è a calcetto. Qualcuno che ha detto che a trent’anni i capelli lunghi anche basta. Che il trucco anche un po’ meno, ma mai per niente. Che non c’è niente da ridere, che cazzo ti ridi. Che se ridi sembri stupida, se piangi sei drammatica, se sei triste sei depressa.

 

E tu componi le mani in ordine, sperando che tutto passi, ti attraversi, portandoti via ogni rimasuglio di istinto, di voglia di infanzia: basta che passi veloce e vada via. Consumata. Seccata. Arida. Saccheggiata dai qualcuno di ogni tempo. Sospiro. Fame, sonno, stanchezza. Guardo le mie di mani, così diverse. Ci immagino un rosario, qualcuno da chiamare che non risponde, una casa vuota in cui tornare in cui asciugherò finalmente le lacrime che cadono in avanti. È a un metro scarso da me. Potrei allungarle, le mani, e toccarle il ginocchio. Avrebbe paura, e allora le prenderei le mani e le direi non so come cominciare, non la vedi, non la tocchi oggi la malinconia? Il tuo dolore fluttuante, le ansie, la vita ripetitiva, gli stigmi nella testa, le paure, le tue unghie mangiate, la solitudine, il prezzo della consuetudine? Non lasciamo che trabocchi, vieni, andiamo, andiamo via… Ma dove andiamo? Siamo su un treno, un treno che corre a 150 km/h. Non si scende. E tu non mi conosci. E io non ti conosco. E l’idea di salvarti da te stessa è la cosa più da “qualcuno” che potessi partorire. Santa Severa. Manca poco a casa. La doccia laverà ogni sporco, ogni pensiero intrusivo, perfino la vergognosa consapevolezza che pensare ai mali altrui è solo una scusa per non curare i miei. E il buio delle campagne ci inghiotte a tutt’e due, su questa stessa barca piena di sconosciuti, tutti coi nasi infilati altrove, nelle piccole contingenze di cui sembrano unicamente fatte le loro vite, le nostre vite.

 

Tira su col naso, piano. Così piano che non so come ho fatto a sentirlo. E so che ha pianto senza piangere, perché è così che fanno le vere signorine, ma il corpo l’ha tradita. O forse ha sentito i miei pensieri. O forse l’ho solo immaginato. Tira su ancora. Non l’ho immaginato. Esito, la gola si stringe. Non sono capace a fare queste cose, non sono capace per niente. Sono un kamikaze che esplode di parole accanto a chi prega il dio del silenzio. Sento nella mia tasca il pacchetto di fazzoletti. L’ho sentito fino ad ora, ma senza sentirlo razionalmente. Ora so che è lì e lo estraggo. Con una delicatezza che non mi appartiene ne estraggo uno. Piano, come si copre un figlio che dorme. Allungo il braccio. Non dico niente, non sono capace. Uno… due… tre… quattro. Alza gli occhi dal linoleum sulla mia mano tesa. Tra il medio e l’indice stringo un fazzoletto di carta sottomarca. Uno… due. Mi cerca. Mi trova. È negli occhi. Lo prende. Non parla, sorride.

 

Lo vedo. Lo vedo davvero. Giuro su Dio, sul suo Dio, che lo vedo davvero. L’amore è un’arte lenta. Si sviluppa in ere geologiche. È per questo che nessuno lo capisce. Siamo tutti tristemente, inesorabilmente troppo immaturi. Ma certe volte si palesa velocissimo. Un lampo negli occhi, un riflesso di finestra aperta al sole, un déjà-vu mentre lavi i piatti, un dolore familiare al ginocchio, un fischio sordo, un respiro corto, una frazione di pensiero completo, un tuffo, acqua nel naso, sale sulla lingua. Apri gli occhi ed è l’amore è lì. L’amore è in quei denti alabastrini. Incastonato. Barricato sotto le labbra. Invisibile a occhio nudo. Mi travolge, totalmente inaspettato. Mi mostra un piccolo germoglio verde nel giardino seccato dal sale.

 

Potrei piangere, la potrei baciare, potrei scendere con lei, seguirla fino a casa e picchiare chiunque le abbia fatto questo. Potrei mettere in discussione ogni mia relazione precedente, chiamare tutte le mie ex e dire loro che usavo la parola sbagliata, che qualunque cosa avessi detto adesso vale quando un biglietto usato di questo regionale veloce. Potrei gridare, tirare la leva d’allarme, far inchiodare il treno, inginocchiarmi e chiederle di sposarmi, di avere due figli, un affitto, un gatto, un altro così si fanno compagnia, un mutuo, una noia coniugale, un viaggio costoso a cinquant’anni perché prima non potevamo permettercelo, un tradimento, un perdono, una placida compagnia fino alla fine. Potrei portarla a ballare, guardarla attraverso gli sguardi degli altri, farla ridere, ridere da matti, da tenersi la pancia, e chiederle tutte le domande del mondo fino alle quattro di mattina, ricevendo in cambio solo nuove domande, ma più belle, migliori. Potrei amarla, col mio sorriso specchiato nel suo, addormentandomi sul suo giardino, in silenzio.

 

Apri gli occhi e l’amore è lì. E poi non c’è più. È stato un attimo, nemmeno il tempo di registrarlo. Era lì, e ora non c’è più. Tanto non l’avrei capito, l’avrei solo rovinato. Amore di nessuno. Né suo, né tanto meno mio, sprecato, agito invano. È troppo, distolgo lo sguardo. Cerco il mare nero, pozza di catrame nel buio. Lo vorrei svuotare e cercare la risposta di questa assurda dolorosa bellezza lì sotto, dove non ho ancora guardato. Inspiegabile. Inafferrabile, come un treno lanciato a 150 km/h in una qualunque sera invernale di un qualunque anno. Complesso come la banalità di queste giornate tutte uguali. L’amore mi sfugge tra i pensieri, impossibile da codificare, intrappolato per sempre sotto a quelle bellissime labbra umettate di dolore. Ci ripenserò per giorni, mesi, anni, ere geologiche. Quando il ricordo di quel sorriso sbiadirà, e si impiastrerà, confondendosi volgarmente con quello di altre donne di mille altri treni.

 

Cambio fuoco, trovo il mio di sguardo riflesso nel vetro. Occhi stanchi, affamati di vita, quella di quel piccolo germoglio verde nel giardino seccato dal sale. Luci spuntano qua e là, il paesaggio si fa familiare. Mi chiedo cosa abbia visto lei in me, cosa ci sia nel mio giardino. Macchine incolonnate, fari, stop rossi. Radio in sottofondo, pensieri confusi, routine. Mi chiedo se sia successo davvero o è soltanto tutto nella mia testa. Semafori, insegne, finestre illuminate, piatti in tavola, il presepe dell’umanità è servito. Mi chiedo se  nel mio giardino ci sia qualcosa da vedere. Passa un attimo, o un minuto, non lo so.

Mi giro e lei non c’è più. «Oh, Fla’». Ex compagno di classe. Banali convenevoli. Ritorno sul treno, con uno strappo deciso di realtà. La cerco alla porta, magari si è preparata per scendere. Il treno rallenta. Guanti, cappello, scaldacollo, giacca, zaino. Il pc pesa. Ci avviamo. Lei non c’è.

 

«Com’è non hai preso la macchina, non c’era sciopero a Roma?».

Sospiro. Sembra una domanda faticosissima, di una difficoltà insormontabile. Dovrei spiegare, parlare, raccontare, ma non me ne può fregare di meno.

Io sono ancora in quel giardino seccato dal sale, a innaffiarlo d’acqua dolce.

Mi passo la mano sulla faccia. Mi arrendo ad averla persa.

«Perché il treno mi piace sempre di più».