Sono stati premiati sabato 12 ottobre i vincitori della seconda edizione del concorso letterario A/R Andata e racconto. In viaggio…. con amore, l’iniziativa lanciata dal Salone Internazionale del Libro di Torino e dal Gruppo FS, che ha l’obiettivo di premiare racconti inediti di scrittori e scrittrici esordienti dai 16 anni in su. Un modo per rimarcare la vicinanza al mondo della cultura, ai suoi territori e ai sui prodotti.

Tra i vincitori “Commedia all’italiana” di Jacopo Milani. Di seguito il racconto.

 

Gettò la spugna sulla carrozzeria verde bottiglia e cominciò a strofinare a mano, con

movimenti circolari, applicando la giusta pressione per non lasciare graffi. Pulì per bene anche il tettuccio, sul quale si rifletteva la luce della lampadina che pendeva dal soffitto delgarage. Alberto fece un passo indietro, si poggiò con la schiena alla serranda di ferro e la guardò: la sua Fiat 127 era proprio bella, sembrava appena uscita dal concessionario. La vide sgocciolare dappertutto, pensò che le serviva un po’ d’aria per asciugarsi per bene. S’inchinò a fatica per alzare la serranda, gli anni erano tanti e gli acciacchi pure, ma un po’ di movimento era il segreto per restare in forma. Il sole illuminò la stanzetta senza finestre e si rifletté sulla carrozzeria. Alberto raccolse un panno di pelle di daino, lo piegò e prese a strofinarlo sul parabrezza. Era l’unico modo per togliere le macchie dai vetri, anche se aveva sempre trovato che puzzasse. Un puntino rimase in rilievo sul vetro. Lo strofinò per bene, grattando anche con l’unghia per toglierlo. Diede un’ultima strofinata, poi tornò a guardare. Il puntino non c’era più, ma adesso vedeva riflesso il viso del ragazzetto che abitava nel suo palazzo.

 

«Buongiorno signor Alberto» gli disse. Se ne stava in piedi, appoggiato allo stipite del

garage. Indossava una maglietta di una squadra di calcio.

«Ciao bello».

«Come va?»

«Eh, tiramo avanti».

«Che sta a lavà la macchina?»

«Hai visto quant’è bella? Tutta pulita»

«Ci credo, la lava sempre e non ci esce mai».

«Questa non può mica andare in giro, sai?»

«Non funziona?»

 

Alberto rise e scosse il capo, camminò intorno all’auto poggiandovisi con le nocche per non lasciare ditate. Si sedette al posto del conducente e girò la chiave. L’auto accennò un rombo, il motore si accese per un attimo, poi si spense.

«Mannaggia, pareva quasi la volta buona».

«A me non me sembra…» disse il ragazzo, nascondendo un risolino.

Alberto affacciò la testa oltre lo sportello. «Ma che vòi? Non c’è scola oggi? E va’, che c’ho tanto da fare ancora». Il ragazzo sorrise. «Arrivederci signor Alberto» fece, e si allontanò. Ma guarda questo, pensò. Poi i suoi occhi si posarono sul volante. Lo accarezzò, c’era qualche segno del tempo, però com’era lucido, e senza un granello di polvere! L’imbottitura dei sedili non era più regolare, come avviene dopo tanti anni, ma fu compiaciuto nel vederli così puliti. Aprì il portaoggetti, sistemò vecchi fogli, la patente scaduta da un decennio e il libretto di circolazione. Lo aprì per caso, e sulle cosce gli cadde un cartoncino rettangolare. Bianco e nero sbiadito. Lui e lei, di spalle ma col viso rivolto alla macchina fotografica. Oltre le loro sagome, un bosco verde e rigoglioso. Maria indossava un abito da sposa bianco, a maniche lunghe, che non le lasciava scoperto neanche un lembo di pelle. Il viso sorridente e un cappello bianco a tesa larga la facevano sembrare un’attrice americana. Con quel sole che c’era pareva estate, pensò Alberto. Lui invece aveva una testa piena di capelli neri, un abito

scuro, cravatta e camicia. “Sto vestito te lo metti du’ volte” gli aveva detto suo padre.

“Quando te sposi e quando mori”. Per adesso, l’aveva indossato una volta sola. Prese la foto e la mise in tasca, l’avrebbe mostrata a Maria.

 

«Ah già» si disse, e guardò l’orologio. Roma brillava, faceva caldo per essere marzo. «Marzo matto, io mica me fido» disse, mentre percorreva la stradina dietro casa sua. Guardò a destra e sinistra e attraversò. Da quella parte c’era l’ombra, faceva più fresco. L’insegna diceva “Alimentari dal 1950”. Alberto aprì la porta a vetri e sarà stato per il bancone con carni, formaggi e affettati, che gli parve come di entrare in una cella frigorifera. «Buongiorno sor Albè» gli disse la donna al bancone. Se ne stava seduta su una sedia, un grembiule bianco macchiato e una rivista tra le mani.

 

«Buongiorno Annarè».

«Che ve do?» Alberto si coprì il collo con una mano, ci mancava solo che si prendesse un accidenti. «Un etto de mortadella e ‘na rosetta, per favore».

«Subito». La signora si alzò e afferrò dal frigo un pezzo di mortadella. «Come sta vostra

moglie?»

«Eh, come sempre, così».

«Pora donna, quanto me dispiace. Almeno sta co’ voi».

«Mi tiene compagnia. Mo s’è fissata che io so’ il dottore» disse sorridendo. «Però quante risate che se famo».

«Meno male. E invece avete visto chi è morto?» disse la donna, dandogli le spalle per pesare l’affettato. «’aje» fece Alberto, grattandosi là sotto per allontanare la sfiga. «No, chi è morto?»

«Mariani l’ingegnere, quello che abitava nel palazzo davanti al suo».

«Ah, e non lo conoscevo, mi dispiace». La donna si voltò.

«È n’etto e due, lascio?»

«Lasci».

 

La signora sistemò il pacchetto, poi trascinò i piedi verso gli scaffali del pane. «Qua ogni settimana se ne va uno. Ormai è così, io aspetto. Tanto i figli so’ grandi, mi marito ha chiuso l’occhi vent’anni fa…». «Eh lo so, che dobbiamo fa’» la interruppe.

La donna non ribatté, forse offesa, e gli passò la busta. «Saluti su moje» gli disse mentre usciva. Ogni giorno ce n’ha una, è morto questo è morto quello, mai ‘na bella notizia, pensava mentre camminava sul lato della strada all’ombra e il sole veniva schermato dall’edificio nel quale viveva, una delle palazzine popolari di Montesacro. Stavano lì da più di quarant’anni lui e la moglie, al piano terra, così un domani non avrebbero dovuto fare le scale. La chiave girò nella serratura.

 

«Marì, eccome, so’ tornato» disse, chiudendosi la porta alle spalle. «Hai visto? Non c’ho

messo tanto» continuò, a voce alta. «Vedessi che bel sole che c’è. Co ‘sto tempo non ce se capisce niente. Ieri pioveva, oggi così». Entrò in quella cucina che era anche un salotto, per via di quel divano a due posti. Posò la busta sul tavolo e aprì la confezione di mortadella. «Oggi passato de verdure, lo mangio pure io». Prese una pentola dal frigorifero e la mise sui fornelli. «Sapessi quant’è bono» disse, poi tagliò la rosetta, la farcì con l’affettato e le diede un morso. La camera da letto aveva tende marroni a riparare le finestre, pareti giallastre sulle quali erano appesi quadri ritraenti figure religiose, e su un lato un grande armadio in legno scuro, della stessa tonalità del letto matrimoniale. Alberto era seduto su una sedia lì accanto, una mano reggeva il piatto e l’altra tendeva il cucchiaio verso la bocca della moglie. Maria era mezza sdraiata, le spalle poggiate allo schienale del letto, i capelli bianchi lasciavano intravedere la cute, un bavaglino legato al collo, lo sguardo fisso mentre le labbra tremavano incerte attorno al metallo curvo del cucchiaio.

 

«Ecco, manda giù, brava» fece Alberto. «Com’è, te piace?» e le sorrise. «C’è tutto… sedano, carota, cipolla, zucca». La imboccò, e una goccia le scivolò sul mento. Alberto la racimolò con il cucchiaio e la imboccò di nuovo. «Non sarà il massimo, ma questa te pòi magnà amore mio».

 

La donna tossì più volte ma mangiò tutto, e quando finì Alberto le pulì la bocca con il

bavaglino. «Lo sai che m’è successo oggi? La 127, è partita! È partita Marì! Me so’ fatto un bel giro, giù fino a Prati Fiscali, poi sulla Salaria me so’ rigirato e so’ tornato. La benzina non era tanta, c’avevo paura de resta’ pe’ strada, ma me so’ divertito. Un giorno de questi te ce porto pure a te, che dici?» disse, e si stese accanto a lei. Gli anni erano passati ma lui la guardava sempre come il primo giorno. «Eh, Marì? Te piacerebbe?»

La donna rimase immobile, lo sguardo fisso di fronte a lei, la testa che sembrava pesarle sulle spalle. Alberto le accarezzò una guancia.

«Ah, guarda che c’ho qua». Estrasse dalla tasca la fotografia del matrimonio. Gliela mise davanti agli occhi. «Te ricordi?»

Maria mosse appena le pupille, parve metterla a fuoco. «Alberto» disse, con voce flebile. Alberto fece uno scatto e si tirò su. «Brava, Alberto!»

La donna lo guardò confusa. «So’ io, tu marito! Me riconosci?»

Maria restò un attimo in silenzio. «Che è l’ora dell’iniezione?»

«Eh?» fece Alberto, poi si alzò e si passò i palmi sugli zigomi. «No, l’hai fatta stamattina

l’iniezione» disse, poi prese una pillola dal blister sul comodino. La avvicinò con delicatezza alle labbra della moglie, poi le porse una bottiglia con una cannuccia.

«Bevi. Che non me riconosci, Marì?»

 

La donna bevve, poi il marito l’aiutò a stendersi e le rimboccò le coperte.

Attraversò il corridoio passando davanti alla cucina. C’era ancora mezza rosetta sul tavolo, ma il dispiacere gli aveva chiuso lo stomaco. Entrò nello stanzino e accese la luce. Vecchi libri, dischi e altre cianfrusaglie attorno a un armadio con un’anta tenuta insieme dallo scotch. Alberto si fece strada, aprì l’armadio e guardò dentro. Spulciò per bene finché non estrasse una gruccia impolverata, dov’era appeso un vestito avvolto nella plastica. So cinquant’anni che m’aspetti, pensò guardandolo. I pantaloni ormai stavano su senza cintura e i bottoni della giacca sarebbero saltati al primo movimento, perciò si disse che era meglio lasciarla aperta. Si guardò allo specchio e con un po’ d’immaginazione rivide il sé di cinquant’anni prima. Certo adesso aveva i baffi, il ciuffo di una volta non c’era più e la schiena si era ingobbita.

«Non me posso mica stranì se Maria non me riconosce» fece, sorridendo. Poi guardò la foto, spiò lo specchio e infine di nuovo la foto. Il sole adesso pareva essersi nascosto dietro alle nuvole. Il vestito si portava appresso un odore di muffa, però magari all’aperto si sarebbe affievolito. Camminò per qualche minuto, e quando arrivò lì fu sollevato nel vedere che non c’era nessuno.

 

«Buongiorno, che è libero?» disse entrando nel salone.

«Si accomodi» rispose il barbiere. Alberto si sedette e si guardò allo specchio mentre l’uomo gli sistemava un telo attorno al collo e regolava l’altezza della poltrona.

«Che facciamo?»

«Via ‘sti baffi, m’hanno stufato. Poi vorrei fare la tinta nera, e se me li pettini co’ la riga dilato, per favore».Il barbiere lo guardò attraverso lo specchio, poi spiò sopra la sua testa. «Per la barba nessun problema» fece. «Però i capelli sono pochi, è sicuro che vuole la tinta?» «Sì sì, non troppo scura, che poi si nota» disse Alberto ostentando un sorriso.

 

Il barbiere gli passò una mano tra i radi capelli e cercò ancora il suo sguardo. «Lo vede, sopra quasi non ci sono, lo dico per lei». «Embè? E che non te pago?»

Il barbiere scosse il capo e trattenne un sorriso. «Come vuole lei». Alberto lo guardò immergere il pennello nella schiuma, e mentre gliela spalmava sulla pelle, quella sensazione lo fece rilassare a tal punto che si addormentò più d’una volta, e di tanto in tanto si risvegliava giusto perché il barbiere gli tirava su la testa.

Più tardi l’uomo gli tolse il telo attorno al collo. Alberto si guardò allo specchio. Erano

parecchi anni che non si vedeva senza barba, e ancor di più che non aveva la testa nera. I capelli erano comunque pochi, ma trovò che fosse migliorato parecchio rispetto a qualche ora prima. Si voltò e si rivoltò davanti allo specchio, adesso persino il vestito sembrava stargli meglio addosso.

 

«Serata importante?» chiese l’uomo.

«Eh, speriamo».

«Alla sua età, ci metterei la firma».

 

Alberto stava per rispondere che non ci aveva capito niente, ma mentre allungava la

banconota i suoi occhi furono attratti dalla strada. I fanali delle automobili si riflettevanosull’asfalto bagnato, mentre nei fasci di luce che scendevano dai lampioni brillavano centinaia di scintille in caduta libera. «Ma che sta a piove?» disse.

Il barbiere annuì. «Meno male che non ho preso la moto».

«E mo come faccio? Non è che stinge?» chiese, indicando i capelli.

Il barbiere sospirò. «Non penso, però meglio che non si bagnino».

«Che c’ha un giornale per caso?» domandò Alberto.

Non avrebbe dovuto camminare per molto, ma con quella pioggia non poteva mica mettersi a correre. Il quotidiano m’ha dato, non era meglio ‘na rivista? pensò. La carta del corriere in effetti era già mezza impregnata. Attorno a lui Roma si era riempita di macchine, come sempre appena cadono due gocce. Camminò su Viale Jonio un passo alla volta, trovando rifugio di tanto in tanto sotto ai balconi. Poi vide il semaforo verde e attraversò la strada. Un brivido, l’asfalto sotto i piedi si fece liscio e il cielo gli si parò davanti di colpo, mentre la schiena si bagnava a contatto col manto stradale. Oddio! gridò qualcuno, e dopo qualche secondo vide tre o quattro persone stringersi attorno a lui. Aiutatelo! disse una voce, mentre due ragazzi lo tiravano su di peso. «S’è fatto male?» Alberto si tirò su, non c’era niente di rotto ma il vestito era zuppo. «No, tutto a posto».

 

«È sicuro?» disse una donna.

«Sì, sto bene» rispose. Gli cadde l’occhio a terra, il giornale si era spalancato e le pagine avevano cominciato a sgretolarsi a contatto con l’acqua.

«Hanno stinto?» le chiese.

«Come?» rispose la donna.

«I capelli! Hanno stinto?»

Jacopo Milani

Jacopo Milani

La donna indagò per un attimo sulla sua testa. «No… le chiamo un’ambulanza?»

«Macché ambulanza, io devo andare da mia moglie che sta a casa da sola».

La gente lo guardò allibita, sembrava che avessero davanti un alieno.

«Che c’avete un ombrello?» chiese guardandoli uno per uno, mentre le gocce di pioggia gli scivolavano sul volto e sui vestiti. Le automobili presero a suonare i clacson, erano in mezzo alla carreggiata e il semaforo era diventato rosso per i pedoni. Il capannello di gente si sfaldò, chi si voltò, chi fece finta di niente, e nessuno rispose. «Ma no, non mi serve l’ombrello, tanto abito qui» fece, sforzandosi di sorridere. «Scusate» disse poi agli automobilisti, mentre liberava la strada e quelli ripartivano sfrecciando. Rientrò in casa grondante, bagnato dalla testa ai piedi. «Marì, so tornato. Vedessi come piove oh! Mortacci, me so fracicato. Il tempo d’asciugamme e vengo» disse ad alta voce. Andò in bagno e si guardò allo specchio. Non ci sperava, ma nonostante la pioggia i capelli non avevano stinto. Alzò gli occhi e ringraziò il cielo per quel dono. Doveva fare qualcosa per i vestiti però, allora si spogliò e accese il phon passando il getto d’aria calda sulla giacca e sulla camicia, poi se lo passò lungo la schiena cercando di fare in fretta. Dopo una mezz’ora poteva dire d’essere asciutto. Sì, sentiva un po’ freddo alle ossa, ma che importava? Si sistemò i capelli un’ultima volta cercando d’imitare una riga di lato, e si aggiustò la giacca sulle spalle.

 

«Maria» disse ad alta voce, andando verso la stanza da letto. «Lo sai chi è venuto a trovarti? Tuo marito Alberto!» ed entrò, mostrando il suo sorriso migliore.

La donna lo studiò, strinse gli occhi, poi li spalancò. «Alberto, Alberto mio».

Lui le si accostò subito. «Maria, allora mi riconosci» e le diede un bacio stringendola forte. «Hai visto, so’ io!» Maria gli prese una mano. «Alberto… che bello… perché non vieni mai a trovarmi?» Alberto sentì le lacrime montare agli occhi, ma s’impegnò a nasconderle. «E c’hai ragione, ma non è mica facile, sai? Però adesso so’ tornato, resto qui, non ci lasceremo più Marì, te lo prometto» e la baciò ancora. «Sei contenta?»

«Sì, so’ contenta che stiamo insieme». Alberto sorrise e una lacrima gli rigò lo zigomo. «Sapessi quante cose c’ho da raccontarti Maria mia, è tanto difficile senza di te».

 

«Mo devo fa’ l’iniezione, dopo me racconti» biascicò la moglie.

«Ma no Marì, l’hai fatta stamattina».

«Ah sì? Non me lo ricordavo, so’ tanto stanca» disse.

«Sei stanca, Marì?»

«Fa’ er favore, che c’è un dottore che viene qua tutte l’ore e me vole fa l’iniezioni. Famme la guardia».

 

Alberto sorrise, le fece una carezza. «Ma certo, lo caccio via, eh? Stai tranquilla amore mio, sto qua co’ te», e mentre le parlava la moglie pareva già essersi addormentata. Chissà che sforzo devi aver fatto, pensò mentre l’accarezzava in volto. Il suo respiro era calmo come quello di una bambina. «Si sta così bene tra le braccia tue, Marì» disse, mentre sentiva le ossa rilassarsi al calduccio del letto.

 

Era passata un’ora, forse due. Aveva la bocca impastata dal sonno.

«Se semo addormiti, Marì» disse, tirandosi su dal letto. Si stiracchiò, le ossa gli facevano ancora male. Scostò la tenda, fuori dalla finestra le persone tornavano a casa nel traffico. «Lo sai che me so sognato? Che stavamo sulla 127 su una strada de campagna, era pieno de alberi, un sacco de fiori colorati Marì» disse sorridendo, e si voltò verso di lei. Nella stanza c’era silenzio, da fuori giungevano sommessi i rombi delle macchine in coda. Maria aveva gli occhi aperti, la testa piegata da un lato, un braccio ciondolava oltre il letto. «Maria!» disse deluso. Fece qualche passo verso di lei. «E no Marì, no! Oddio…» e le prese il viso tra le mani. La sua pelle era fredda e tesa, il calore di qualche ora prima sembrava lontano anni. «Maria, ma perché?» disse, singhiozzando. Camminò senza rendersene conto verso la porta di casa, l’aprì e si guardò intorno, disorientato, sul pianerottolo. «Aiuto! È morta» gridò, e la sua voce rimbombò per tutto il palazzo. Bussò alla porta della vicina di casa. «Signora, mia moglie è morta» disse ancora. «È morta».

 

Il cortile interno era pieno di bambini che giocavano a rincorrersi, gridando con sorrisi sdentati. Camminò lentamente sotto al sole d’aprile senza spostarsi sul lato della strada all’ombra. Le ossa le sentiva ancora bagnate, forse così si sarebbero asciugate, pensò, ma cominciava a credere che sarebbero rimaste fradice in eterno. Passando di fronte all’alimentari evitò di voltarsi per non dover salutare la proprietaria, ma una volta superato udì un cigolio. «Sor Albè» disse la voce. Si voltò, la proprietaria se ne stava sulla porta, le mani giunte. «Come semo piccoli davanti ar signore» gli disse. Alberto ebbe l’istinto di grattarsi là sotto, poi pensò che peggio di così non poteva andare, e gli venne da ridere. «È proprio vero» disse, prima di voltarsi e ripartire.

 

Il garage s’illuminò con la luce del giorno quando alzò la serranda. La 127 era lì, pareva

aspettarlo. Alberto l’accarezzò col dorso della mano, per non lasciare ditate. Aprì lo sportello e si sedette al posto del conducente. Guardò compiaciuto i vetri lucidi, i sedili e il portaoggetti in ordine. Girò la chiave nella toppa, e l’auto rispose con un rombo

scoppiettante. Aspettò che si spegnesse, ma la sua 127 quel giorno sembrava non volerne sapere. «S’è accesa! A Marì, s’è accesa! Hai visto? Che t’avevo detto?» disse e rise, rise forte. Il garage era aperto, la strada all’esterno era deserta. Pensò di farsi un giro, poteva andare ovunque adesso con la sua macchina. Nello specchietto retrovisore vide i propri occhi e gli parvero quelli di un altro, allegri e vuoti allo stesso tempo. Le mani sul volante si fecero tese e presero a tremare. Il sorriso divenne amaro. «Ma ‘ndo vado?» sussurrò tra sé, e le lacrime lo colsero alla sprovvista. Poggiò la fronte sul volante e singhiozzò senza riuscire a fermarsi. Poco più tardi, passando accanto ai cartelloni pubblicitari, lesse il manifesto funebre. È mancata Maria Pellegrini, di anni 84. Ne dà il triste annuncio il marito Alberto Lombardi.

 

Aveva fatto mettere la foto del matrimonio, se la sarebbe ricordata per sempre così, bella e felice nel giorno più bello della loro vita, sotto quel sole d’aprile che sembrava estate.Il ragazzo si accorse di lui da lontano, mentre tornava a casa, col borsone del calcetto inspalla. Si fermò, non se la sentiva di parlare con lui, non era capace a fare le condoglianze. Il signor Alberto ne stava lì, di spalle, con le mani sui cartelloni pubblicitari. Si chiese che cosa stesse combinando. Dopo un paio di minuti lo vide mettersi le mani in tasca e andarsene a passo lento. Il ragazzo allora riprese la marcia, e mentre si avvicinava notò che c’era un foglietto arancione là dove il vecchio aveva messo le mani. Un po’ per curiosità, fece una breve deviazione e vi si avvicinò. Era scritto a caratteri cubitali, con una grafia tremolante, tutto in maiuscolo. Vendesi Fiat 127 color verde bottiglia, 1974, ottime condizioni, prezzo trattabile.