In cover Lightning II (2000) © Douglas Kirkland. Courtesy l’artista Alzek Misheff

Non essere uniforme e omologato, perseguire le proprie inclinazioni a costo di arrivarci a piedi o nuotando in mezzo all’Oceano Atlantico. Alzek Misheff, pittore, musicista, compositore e performer, è un creatore poliedrico e interdisciplinare che da oltre mezzo secolo percorre le parabole dell’arte internazionale con suoi interventi e le sue mostre.

 

Bulgaro di nascita, è fuggito a piedi da Sofia quando era giovane, diventando nomade nel mondo, e alla prima Biennale a cui ha partecipato, a Graz, in Austria, era iscritto come ospite perché senza cittadinanza.

 

Da moltissimi anni vive e lavora in ItaliaAchille Bonito Oliva lo inserisce tra gli esponenti europei di riguardo e lui, che ha appena compiuto 80 anni, quando parla dei suoi progetti passati e futuri lo fa con gentilezza ed entusiasmo.

 

Chi è Alzek Misheff?

Mi considero da sempre pittore, nello specifico maestro in ritratto e figura, come testimonia il mio diploma dell’Accademia di Sofia. Negli anni ‘70 sono entrato nella mischia dell’arte concettuale: non considerando l’opera in modo totalmente analitico come fa Joseph Kosuth – tra i principali esponenti di questo filone – ne ho conservato una rappresentazione alla lettera, senza privarla della sua impostazione scenica.

Per esempio in Volo con le pinne ho cercato davanti al pubblico di imparare a volare proprio con le pinne, appeso tra due tralicci. Mentre nella Piscina nuotavo in una grande vasca costruita dentro una galleria di Milano. Inevitabile, e voluto, il conseguente effetto umoristico in contrasto con la “serietà” dei miei colleghi. Poi, dopo la performance fisica, dipingevo la scenografia o eseguivo un concerto come evocazione della pittura. Ecco, io sono questo.

 

Hai definito l’arte una «magnifica costrizione»: in questa riflessione qual è il ruolo di chi la fa?

È fondamentale. Tutti i maestri della modernità insegnano a ribellarsi alle regole, dando prevalenza al gesto, alla libertà sconfinata dell’io dell’artista-demiurgo capace, con il proprio comportamento creativo, di rovesciare qualsiasi precetto. Picasso affermava, ma vale anche per Marcel Duchamp e molti altri contemporanei, che non è importante cosa, e nemmeno come, ma chi dipinge. Io invece ho sempre pensato, in risposta a questa considerazione, che l’arte sia una meravigliosa costrizione con regole stabili, come le migliori partite di scacchi che si svolgono per forza sulla scacchiera e non fuori da essa, pur con mosse geniali.

 

Come rappresenteresti questi tempi dolorosi e difficili?

Con la pittura, come sempre. Dipingo metropoli come Parigi, Milano, New York dove la moltitudine, la folla densa cerca un “verso dove”…

 

Sempre citandoti: «Ciò che conta è l’incontro, tra sentimenti ma anche tra modalità e diverse espressioni creative». Concetto attuale.

Si, proprio così, sono le nuove relazioni in tempo di distanziamento. Il titolo del mio concerto alla Biennale di Venezia del 2000, dove ho diretto Lightning II, immerso in un cilindro trasparente pieno d’acqua e pesci rossi, era Proliferante verità del sentimento. La comunicazione diventa sempre più immediata e meno fisica: questo può avere anche dei vantaggi ma al centro occorre ci siano sempre le passioni. La digitalizzazione, inaspettatamente, ha favorito un’attenzione enorme verso il passato, arte compresa. E, a proposito dell’innovazione a ogni costo di oggi, potrei citare Auguste Rodin: «L’arte viva è un proseguimento di quella del passato».

500 giovani volti (1984)

Tra i tuoi innumerevoli lavori, e tra le tecniche usate, quali maggiormente ti rappresentano?

La pittura, ancora una volta. Quella di grandi dimensioni realizzata per gli spazi pubblici nel territorio di Alessandria, tra cui L’orchestra sinfonica nella sala del Consiglio di Acqui Terme, opera di 9x3 metri, La festa dell’uva dipinta per una chiesa sconsacrata a Ponti e naturalmente l’ultima, il San Giorgio e la processione con le spine a Montechiaro d’Acqui. Non posso dimenticare, però, i 500 giovani volti, progetto dell’84 in cui ho disegnato a mano, su carta di grandi dimensioni, 1.336 facce poi affisse a Bologna, Firenze, Milano, Roma e Torino. Iniziava l’epoca della comunicazione sociale, la Public art, e tutti quei volti sono stati la prima vastissima rete reale e fisica che ha anticipato Facebook di circa 25 anni.

 

Il più bel ricordo di un viaggio?

Non ho la patente e non so guidare. Ho in mente tutti i percorsi in treno fatti durante la mia adolescenza, sono stati romantici. Mi ricordo il piccolo convoglio a vapore e la compagnia del fuochista e del guidatore. O anche il più buffo e, nello stesso tempo, il più serio. Nell’82, dopo tre anni di preparazione e 12 mostre sullo stesso tema tra New York e Milano, sono riuscito a realizzare la performance La traversata dell’Atlantico a nuoto, da Milano a Londra in treno e poi sulla nave Queen Elizabeth 2, nuotando nella piscina del transatlantico per cinque giorni fino all’arrivo nella Grande Mela. Uno dei miei titoli preso testualmente, lo considero una fake news ante litteram.

 

Un Natale passato che non dimentichi?

Nel ’71, sempre in treno, ho viaggiato dal campo profughi di Trieste fino a quello di Santa Maria Capua Vetere, nel casertano, dove ho trascorso il mio primo Natale in Italia.

 

Come ti auguri che sia il 2021?

Forse questa battuta d’arresto potrà servire a ripensare ai valori di sempre che abbiamo dimenticato, chi lo sa.

 

Cosa vorresti fare una volta fuori dalla pandemia?

È prevista una mia retrospettiva in due continenti, con molto lavoro di preparazione, per i miei 50 anni di attività. Vorrei vederla realizzata.

 

A che cosa serve l’arte?

A proseguire. Bisogna tornare a concepirla come servizio di valori, quelli universali sia per l’artista sia per tutti gli altri: la Proliferante verità del sentimento, valida da sempre.

Articolo tratto da La Freccia