In cover, Omar Di Felice, Monti della Tolfa (RM) © Luigi Sestili

Nel mezzo del deserto del Gobi, tra i ghiacci della Mongolia o nel cuore della tundra. Se in questi luoghi sperduti quanto meravigliosi, affascinanti e selvaggi, incontrate un italiano che li sta attraversando in bicicletta, potreste esservi imbattuti in Omar Di Felice, campione di ultracycling.

 

«Quando mi trovo da solo e stravolto dalla fatica in luoghi sperduti del pianeta, affronto il momento drammatico guardandomi intorno e dicendomi quanto sono fortunato a lavorare in luoghi di tale bellezza».

 

Superi mai i tuoi limiti?

Per compiere imprese estreme bisogna conoscere molto bene le proprie capacità e soprattutto gli ostacoli che la natura ci impone. A Capo Nord, con una bufera di neve e ghiaccio a -30°C, devi ripararti e attendere. La vera vittoria è sempre e comunque ritornare a casa: in condizioni estreme rappresenta la differenza tra vivere e morire.

Traversata dell'Alaska lungo la Dalton Highway © Luigi Sestili

Come ti sei avvicinato alla disciplina dell’ultracycling?

Mi sono appassionato al ciclismo a 13 anni. Era il 1994 e vedendo le imprese di Marco Pantani ho avuto una vera folgorazione. Ho cominciato con la squadra giovanile di ciclismo a Nettuno, dove sono cresciuto (sul litorale a sud di Roma, ndr). Da lì in poi allenamenti, gare locali e poi nazionali. Ma anche lo studio, che non ho mai lasciato: ho preso una laurea in design, con tanti sacrifici e molte rinunce. Durante i ritiri, mentre i compagni si rilassavano, io aprivo i libri e studiavo. E ho coronato il sogno, correndo per una stagione nel ciclismo professionistico.

 

E poi?

Quando ho dovuto decidere se dedicarmi esclusivamente al professionismo o alla mia attività di designer, ho scelto la seconda opzione. Mi sono messo di fronte allo specchio con grande onestà, perché a te stesso non puoi mentire. Nel ciclismo non sarei stato un protagonista e quindi era meglio dedicarsi ad altro.

 

E la bici?

Non l’ho mai abbandonata. Anzi, ha continuato a essere la mia passione e, alla fine, mi ha riconquistato. Via via allenamenti più intensi e la decisione di partecipare alla mia prima gara di ultracycling.

Una disciplina particolare…

È nata in America negli anni ‘80 con la traversata da costa a costa. Un gruppo di matti, definiti proprio così, salivano in bicicletta sulle sponde dell’oceano Pacifico per arrivare all’Atlantico. Una serie di Forrest Gump su due ruote. Poi questo movimento sportivo si è organizzato in disciplina e mi ci sono avvicinato perché rispecchiava molto il mio spirito di avventura, che significa amore per la natura e per le lunghe distanze e voglia di mettersi alla prova per sfidare i propri limiti. Quindi ecco la mia prima gara di 500 chilometri, poi un’altra e un’altra ancora. La passione mi ha conquistato finché ho capito che avrei voluto vivere di ciclismo estremo. E ci sono riuscito a partire dal 2016.

 

Aver fatto sport fin da bambino ti ha aiutato?

È stata una palestra di vita, lo sport non è solo diventare più forte dell’avversario e vincere, è soprattutto educazione attraverso le dinamiche delle competizioni. Nell’ultracycling lo vedo benissimo, mi insegna ad affrontare e superare le difficoltà, a rafforzarmi mentalmente. Inoltre, qualsiasi tipo di sport a qualsiasi livello fa bene, è sano. Abbiamo tutti bisogno di più sport e meno medicine.

Andrea Radic e Omar Di Felice a Roma Termini © Luigi Sestili

Dove trovi quel quid in più per affrontare certe imprese?

Nella mente, è la motivazione che muove il mondo. Quando desideri qualcosa sei disposto a metterti in gioco e a fare qualsiasi sacrificio fisico, perché il corpo è lo strumento con cui compiere l’avventura, ma la mente lo guida, è il motore principale.

 

Un’impresa che ti sembrava impossibile e che invece hai portato a termine?

La prima avventura invernale a Capo Nord: nessuno aveva mai affrontato la pedalata su ghiaccio con una bici da corsa. Al primo giro di pedali mi sono detto che era impossibile, poi è scattata la determinazione mentale e ho applicato la tecnica. Ogni giorno qualche chilometro in più e ho raggiunto Capo Nord, portando il mio fisico oltre i suoi limiti apparenti.

 

Le avventure che scegli sono in solitaria. Sei tu la persona con la quale stai meglio?

Forse è vero, ho raggiunto un punto di equilibrio perfetto con me stesso. Sicuramente, nella solitudine riesco a dare il meglio. Una condizione che, per alcuni, può essere un punto debole, per me è il punto di forza. Trascorrendo anche 20 giorni a pedalare da solo torni a usare l’istinto, interpretando i segnali della natura.

Solo ma con una squadra alle spalle che ti sostiene.

Ci sono gare dove hai il supporto, come le auto ammiraglie al Giro d’Italia, e gare dove metti le borse sulla bicicletta e parti. Indubbiamente, sei sempre l’espressione sportiva del lavoro di un team affiatatissimo. Per me, in primis, la mia compagna Sara e il mio coach Fabio, con i quali ho un confronto quotidiano. Quando mi trovo in capo al mondo e arriva lo sconforto, basta alzare il telefono e le loro voci mi danno la forza di trovare la pace interiore e proseguire. Un essere umano, per arrivare a certi livelli, ha bisogno di avere accanto le persone giuste.

 

Sara ti ha capito fin da subito?

In realtà mi ha conosciuto quando avevo “parcheggiato” la bicicletta. Diciamo che non ha incontrato subito il vero Omar. Si è trovata, lei di buona famiglia romana, dove il ciclismo non è lo sport più praticato, a sentirsi dire: «Tu vai in macchina al mare, io ti raggiungo in bicicletta». Poi si è affidata completamente al mio amore per questo sport e mi ha sempre supportato.

 

La tecnologia è utile o è la macchina umana la vera risorsa?

La tecnologia ha reso queste imprese più sicure, è fondamentale nel caso di bisogno.

 

E poi consente di comunicare e raccontare.

Da ragazzo ero affascinato da Ambrogio Fogar e Walter Bonatti, uomini che hanno compiuto e raccontato esplorazioni meravigliose. Attualizzando, mi rendo conto che posso portare le persone con me durante la mia avventura. Come quando ho raggiunto in bicicletta il campo base dell’Everest, in diretta sui social. Spesso produco contenuti specifici con finalità formative e motivazionali: me li chiedono le aziende per trasferire questi valori ai loro dipendenti. Costanza, resilienza e metodo sono applicabili a qualsiasi attività.

 

Aneddoti avventurosi?

Di tutti i tipi. Nel cuore degli Stati Uniti me la sono vista brutta con due rottweiler e il loro proprietario armato di fucile: cinque minuti di terrore. Nel deserto del Gobi, in Mongolia, un gruppo di nomadi mi ha accolto nella loro tenda e rifocillato, includendo anche quattro generosi giri di vodka locale. E io sono astemio.

Ti piace viaggiare in treno?

Molto, fin da ragazzo: ci salivo con la mia bicicletta per andare a scoprire e conoscere luoghi diversi. Scendevo dal treno e pedalavo. Lo faccio anche oggi, vado in bicicletta da Roma a Parigi e poi torno in treno. L’intermodalità consente di muoversi in modo leggero e sostenibile, portando con sé solo l’indispensabile. Alternare treno e bici è una delle più belle forme di viaggio. Parliamo tutti di ambiente e sostenibilità: ecco, cominciamo a viaggiare in treno con bicicletta al seguito.

 

Il profumo della tua infanzia?

I prati e la campagna di Nettuno, dove sono cresciuto, che poi è il profumo della libertà che provi salendo in bicicletta.

Articolo tratto da La Freccia