Passione profonda, ricchezza di stimoli, volontà di capire ed elaborare. Sono le prime impressioni che diventano emozioni incontrando e ascoltando Fabrizio Gifuni: drammaturgo e narratore, attore e conoscitore, perfezionista – «forse troppo, devo imparare a chiedere qualcosa di meno a me stesso» – e ostinatamente alla ricerca di risposte e di elementi da elaborare – «un continuo confronto innanzitutto con me stesso» – per consegnarli agli altri. «Cosa ci direbbero oggi Pier Paolo Pasolini, Carlo Emilio Gadda o Aldo Moro? Il teatro è un gioco di fantasmi che si evocano nello spazio e nel tempo, come in una seduta spiritica, la cui sintesi si costruisce tra chi è sul palcoscenico e coloro che siedono in platea. Un magnetismo particolare, l’essenza del lavoro teatrale. La gioia più grande è quando capita che qualcuno mi fermi non per farmi i complimenti ma per dirmi grazie per l’emozione che abbiamo condiviso».

 

A ottobre torni a teatro, con quale spirito?

Difficile definire con quale spirito si riparte nel mondo dello spettacolo. Credo ci sia un forte entusiasmo e un gran desiderio di veder riprendere a pieno regime questo settore, e una spinta coraggiosa da parte di alcuni, ma le difficoltà sono enormi. Prima al Teatro Vascello di Roma (fino al 4 ottobre, ndr) e poi per due settimane al Piccolo Teatro di Milano (dal 6 al 17, ndr), ricomincio con lo spettacolo su Aldo Moro Con il vostro irridente silenzio, uno studio sul memoriale e sulle lettere che l'ex presidente della Democrazia cristiana scrisse durante la prigionia, a cui ho dedicato gli ultimi anni del mio lavoro, come drammaturgo e interprete.

Pochissime sale hanno deciso di riaprire, a Roma si contano sulle dita di una mano, e il Vascello è una di queste. Viviamo in un momento di grande paura che penalizza molto il teatro, è un disastro in termini culturali ed economici, a partire dai lavoratori del settore. Dobbiamo ripartire, qualcuno se ne deve far carico, anche impavidamente, pur rispettando tutte le regole. Al Vascello, quando sono state chiuse le sale, abbiamo fatto appena in tempo a terminare l’ultima replica. Serate strapiene di gente seduta in terra, con un’atmosfera da “campo magnetico” tra i corpi in scena e i corpi degli spettatori che interagiscono. Chi ci sarà questa sera? Che succederà? La magia è questa.

 

Uno studio, quello su Aldo Moro, molto intenso.

Lo considero il mio lavoro più importante, senza dimenticare il progetto realizzato con Giuseppe Bertolucci su Gadda e Pasolini, quella Antibiografia di una nazione con cui volevamo ricostruire una mappa cromosomica dell’Italia e degli italiani, per capire cosa eravamo, cosa siamo diventati oppure, in fondo, cosa siamo sempre stati. Oggi tendiamo a sentirci dei nani sulle spalle dei giganti, come se niente fosse all’altezza di ciò che ci ha preceduto. È bene fare la tara dell’effetto nostalgia. Forse fra 30 anni, passato un generale clima di confusione, avremo la distanza giusta per apprezzare persino ciò che accade nel presente.

Con il vostro irridente silenzio è nato al Salone del Libro di Torino del 2018. Erano i 40 anni dall’uccisione di Moro e il direttore Nicola Lagioia mi chiese di fare un lavoro su questo tema. Dopo averci pensato, ho capito che non volevo aggiungere altro a quanto scritto e detto sulla figura dello statista e mi sono concentrato unicamente sulle parole da lui scritte durante quei 55 giorni di sequestro. Parole che hanno subito una doppia dannazione. Prima, quel poco che era uscito venne mistificato, deriso, attaccato frontalmente, mentre tutti volevano mettere le mani su quel memoriale, quasi un’ossessione. Poi, molti che ebbero a che fare con quelle carte morirono: Mino Pecorelli, Carlo Alberto Dalla Chiesa, il colonnello Antonio Varisco, il generale Enrico Riziero Galvaligi. Oggi che quelle parole sono pubbliche, invece di diventare patrimonio collettivo non le legge più nessuno.

Nel suo memoriale straordinario Moro, in modo cristallino, parla di tutto: dalla strategia della tensione a piazza Fontana, dai finanziamenti illeciti alla Dc al ruolo degli ambasciatori americani in Italia. Se non abbiamo la pazienza di riannodare quei fili non capiremo mai nulla del nostro presente. 

Fabrizio Gifuni

Da dove viene questa tua sete di approfondire?

Dalla passione per il mio lavoro, fatto di sfrenatezza e di gioco, per raccontare il nostro tempo, la società, gli esseri umani. Mi interessa capire cosa ci colpisce, altrimenti tutto diventa, nella migliore delle ipotesi, una semplice faccenda culturale. Dobbiamo cercare, nel teatro come nel cinema, quel qualcosa che ci cambia rispetto a prima. Come dicevano i greci oltre duemila anni fa, andare a teatro al tramonto ad ascoltare una storia è un’attività che partecipa alla crescita dell’individuo, innestando in noi una piccola esplosione psichica.

 

Nel cinema questa tua forte identità drammaturgica non si sente un po’ costretta nel ruolo recitativo?

Non è detto che prima o poi non mi verrà questa voglia di dedicarmi anche alla regia, se imparerò a distribuire meglio le energie potrebbe accadere. Chiedermi se preferisco il cinema al teatro è come chiedere a un bambino se vuole più bene a mamma o a papà. È tutto un arricchimento e mi diverto molto. Fin dal principio ho potuto lavorare con grandi maestri, Gianni Amelio, Giuseppe Bertolucci, Liliana Cavani, Marco Tullio Giordana, Marco Bellocchio, ma anche con registi della mia generazione come Gianluca Maria Tavarelli, Daniele Vicari, Andrea Porporati.

In questo momento il cinema italiano ha dei grandi talenti e tanti sono giovani. Sta per uscire La Belva, che ho girato con un bravissimo regista di 27 anni, Ludovico Di Martino, un film di azione totale che mi è piaciuto enormemente fare, prodotto da Warner Bros e da un produttore coraggioso come Matteo Rovere per Groenlandia.

 

Sei impegnato anche su altri fronti?

A Lucera (FG), in Puglia, paese di origine della mia famiglia, organizzo da quattro anni delle vere e proprie stagioni al Teatro Garibaldi e nello splendido anfiteatro augusteo con l’aiuto di Natalia Di Iorio, perché sono convinto che i teatri debbano essere piazze aperte sulle città. Questo, in territori che hanno scontato per vari motivi una forte arretratezza, significa anche svolgere un’attività sociale, prosciugando la palude dove prosperano criminalità, disagio e indifferenza. Ricominceremo in primavera. E sono fiero di essermi speso insieme a un centinaio di attrici e attori per la nascita di Unita (Unione nazionale interpreti teatro e audiovisivo), la prima associazione di categoria esistente a tutela dei lavoratori del settore creata per sostenere la centralità del nostro mestiere, con l’obiettivo di arrivare finalmente a un contratto collettivo nazionale per l’audiovisivo.

 

Ti senti un privilegiato nel fare il tuo mestiere?

Solo perché sono una persona che fa qualcosa che ama. Serve coraggio e fortuna per riconoscere la propria passione. Riuscire a capire cosa piace e farlo nel miglior modo possibile. L’altro privilegio è poter continuare ad allenare la memoria: sono gli attori gli ultimi depositari di quest’arte.

 

Il profumo della tua infanzia?

L’odore della casa in Puglia, che si è miracolosamente preservata per 320 anni, vissuta sempre dalla stessa famiglia. Piena di odori del presente, come il cibo, che si mischiano a odori del passato, come i libri antichi.

 

Qual è il tuo rapporto con il viaggio in treno?

Ricordo la fatica, i primi viaggi da solo a 16, 17 anni e le emozioni che mi davano. Oggi si viaggia molto più comodamente, ma continuo a vivere l’esperienza del treno come una cosa molto viva: il paesaggio che cambia dove finiscono le campagne, la trasformazione delle periferie, parti di territorio che vedi solo dal finestrino. Mi piace molto trovarmi fuori dalla rincorsa del tempo, il treno è un luogo dove ti senti salvo, puoi non fare niente e fermarti a pensare: è un tempo regalato. 

 

Articolo tratto da La Freccia