Tutti lo conosciamo come il frontman dei Baustelle. Questa volta, però, Francesco Bianconi balla, o meglio canta, da solo. E lo fa con il primo album solista, dal sapore eterno: Forever. Il progetto, minimale e puro, mostra una versione differente dell’artista, come confermano i singoli Il bene e L’abisso. La voce è l’unico elemento percussivo. E per lanciare il progetto il cantautore ha ideato il format Storie inventate che, in otto puntate online, approfondisce diverse tematiche a lui care. 

 

Da dove nasce questa voglia di un percorso solista?

Dalla necessità di fermarsi un po’ e voltare pagina, al fine di evitare crisi matrimoniali o periodi di inflazione. Venivo da due dischi molto fortunati coi Baustelle: i volumi L’amore e la violenza usciti a distanza di un anno l’uno dall’altro, un record per noi, che facciamo passare, di solito, quattro anni fra un’uscita e l’altra. Questi due progetti hanno portato con sé le relative tournée che, per quanto mi riguarda, sono state le migliori che abbiamo mai fatto, come risposta di pubblico e come maturazione nostra in quanto musicisti e gioia di stare sul palco. Insomma, tutto fantastico, ma è in questi momenti in cui si sente di aver dato tutto e in cui ci si sente totalmente appagati, che bisogna avere il coraggio di cambiare. Per questo ci siamo messi in pausa in quanto Baustelle, decidendo che ognuno di noi, in questo periodo di “fermo biologico”, poteva dare via libera ai propri personali istinti, anche quelli più bestiali.
 

Nella nota del disco dici di essere stato molto sincero, quasi in una seduta psicoanalitica. Come mai?

Ho cominciato a scrivere le canzoni di Forever con l’intenzione di essere sincero e fuori controllo. Mi sono concesso questo tipo di sperimentazione dato che, col gruppo, sono sempre stato molto preciso, molto controllato: mi sono sempre occupato di molte cose, oltre che della pura scrittura delle canzoni. Ad esempio dei loro arrangiamenti e della produzione artistica. Stavolta ero solo e mi sono detto di provare a scrivere senza regole, per fare un disco puro, spoglio, ridotto all’osso, più vero del solito. Ho pensato da subito a queste canzoni come a strani oggetti nudi e senza vergogna. Anche dal punto di vista sonico, intendo, senza chitarre, basso e batteria. Nella mia testa volevo delle “canzoni-flusso di coscienza” per soli voce, pianoforte e quartetto d’archi. Avevo evidentemente l’urgenza di raccontare l’uomo che sono in questo momento, un uomo – credo - molto cambiato rispetto all’uomo di ieri. E di farlo senza troppi filtri o sovrastrutture. Avevo bisogno di entrare nell’intimo, e a ruota libera, come si fa sul lettino dell’analista. 

Nell'album ci sono quattro collaborazioni. Perché hai scelto questi nomi che hai voluto fortissimamente?

Ci sono più di quattro collaborazioni! Si tratta di un disco nudo con un sacco di gente dentro! Quattro sono le voci che cantano con me: Rufus Wainwright, Kazu Makino, Hindi Zahra, Eleanor Friedberger. Ma ci tengo a nominare anche il Balanescu Quartet che ha curato tutti gli archi del disco, Michele Fedrigotti (collaboratore storico di Battiato) e Thomas Bartlett che hanno suonato tutti i pianoforti. E soprattutto Amedeo Pace dei Blonde Redhead, produttore artistico di Forever con cui mi sono trovato perfettamente in sintonia. È stato come trovare un me “altro da me”, una cosa che non succede spesso e mi rende particolarmente felice. Tutte le collaborazioni del disco nascono dall’esigenza di mischiare lingue, codici musicali ed esperienze, al fine di cercare un “universale” fuori da tempo, mode e geografie. Volevo un disco percepibile come italiano, ma anche come oggetto non perfettamente identificato: una specie di “folk totale del Pianeta Terra”.

 

Nel disco sembra di notare una certa insofferenza e mal sopportazione dei tempi di oggi. Questo sentimento - nel caso ci fosse - è cambiato ai tempi del Covid-19?

Nelle canzoni c’è un accento così forte su di me come essere umano e, di conseguenza, sull’essere umano in quanto tale. Così si crea una sorta di contrapposizione con quello che dell’uomo è l’habitat naturale, cioè quella cosa che chiamiamo mondo. Entrare dentro di me così dettagliatamente ha fatto venir fuori evidentemente anche ciò che di me è in contrasto col mondo e i tempi che viviamo. Per questo dico sempre che le canzoni d’amore, quanto sono scritte scavando a fondo nella psicologia degli esseri umani, sono le più politiche. Il Covid, per quanto mi riguarda, non ha fatto che amplificare il livello di profondità della mia autoanalisi: col lockdown, come tanti, ho avuto tonnellate di maledetto tempo in più per pensare. Ma il disco era già fatto, le canzoni avevano il loro bel caratterino abissale già da prima, indipendentemente dalla pandemia.

 

Che mi dici, invece, del format Storie Inventate?

Avevo, allo stesso tempo, voglia di cantare delle cover e sfruttare in qualche modo il mio nuovo studio casalingo. Mi è così venuto in mente di organizzare una sorta di strana trasmissione tv in cui io e il pianista, Angelo Trabace, eseguiamo live una serie di canzoni di altri disparati autori (pop o engagé, italiani e stranieri). Ognuna di queste puntate è tematica: i temi sono scelti a partire da qualcosa che il testo della canzone evoca o contiene e, in ogni puntata, oltre alla nostra esibizione, è presente la performance di un ospite (un cuoco, una youtuber  una scrittrice, una sociolinguista, uno stand up comedian) che dice la sua, liberamente e anche un po’ follemente, sul tema. Sono molto contento del risultato. Merito anche del collettivo di registi Bendo Films, che ha accolto con entusiasmo la mia supplica di girare tutto con un’estetica cinematografica e per niente lo-fi. Diciamo la verità, non se ne può più di streaming in bassa qualità girati col telefonino.

 

Come vorresti venisse percepito questo disco?

Come qualcosa di emozionante e resistente al tempo.