Ci è mancato tanto Samuele Bersani. Con le sue canzoni, fotografie puntuali e poetiche della realtà, che riescono a rendere accettabili anche i momenti più duri. Dopo sette anni, il cantautore romagnolo è tornato con Cinema Samuele, un album-mosaico vitale e visionario, in cui ogni tassello si presenta in maniera cinematografica, come un film da guardare a occhi chiusi. Un progetto importante, fatto di fragilità, sentimenti sinceri e guizzi ironici. L’ascoltatore può immergersi nell’universo Bersani, nel suo vissuto e nella sua visione del mondo.

Perché hai lasciato passare tanto tempo per un nuovo disco?

Faccio musica, ma prima di tutto sono un essere umano. Ho avuto un blocco che non mi ha consentito di pensare ai testi delle canzoni. Ho dovuto ricostruirmi, trovare i tasselli di puzzle che mancavano nel mio privato.

Come hai fatto a ricomporli?

Credendo nel mio lavoro. Sono stato orgoglioso di me stesso quando ho ricominciato a viaggiare tra Parma, Milano e Bologna per lavorare sul nuovo disco, trascorrendo molto tempo in treno. È un mezzo che amo per l’atmosfera che si crea a bordo, anche se oggi è molto cambiata: sono tutti iperconnessi, non c’è più il viaggio felliniano in cui capitava di conoscere qualcuno e chiacchierare.

Possiamo dire che sei un treno regionale in un mondo di Alta Velocità?

Mi riconosco in questa metafora. Anche se ci tengo a dire che utilizzo molto anche le Frecce. In ogni caso, su entrambi, prevale l’immersione nella tecnologia. Luoghi e rapporti si sono trasformati. Ho fatto viaggi in cui le persone intorno a me erano più interessate allo schermo del pc che al mondo fuori dal finestrino.

A proposito di viaggi, Cinema Samuele è nato, in Sicilia, sull’isola di Ginostra...

È stato l’incipit inutile e bellissimo del disco. Mi illudevo di poter andare su un’isola, solo io, il mare, l’orizzonte, il profumo delle bouganville e due musicisti. Però, quando l’acqua non era più calda e dopo un temporale pazzesco, loro hanno deciso di ripartire e sono dovuto tornare indietro anche io. Da lì mi sono chiuso a Milano, poi a Parma e a Bologna, tra melodie e arrangiamenti, per completare l’album con le storie che potevano starci bene dentro.

Hai cambiato qualche testo dopo il lockdown?

Solo una strofa del brano a sfondo ecologista Distopici (ti sto vicino) perché strideva: parlava di camion in colonna, ma dopo aver visto le immagini di Bergamo ho deciso di toglierla.

Cosa ti ha insegnato la pandemia?

Che anche tra i condomini ci sono persone generose che non ti aspetti. Chi fa il mio lavoro, poi, ha avuto molto tempo per riflettere, al di là dello scrivere canzoni.

Nel disco parli dei social in modo critico. Ci hanno reso peggiori?

Siamo in una società ricurva, che non ha memoria nel momento in cui si dimentica il cellulare a casa. Mi spaventa non si veda più il mondo con gli occhi, ma attraverso il filtro di uno schermo.

A metà aprile dovresti partire per i live, in un momento di forte crisi per i lavoratori dello spettacolo…

La situazione è tragica per chi vive di palcoscenico, ha figli e non riesce a lavorare. Al momento, però, i dati hanno dimostrato che cinema e teatri sono luoghi sicuri.

Il nuovo progetto inizia con Pixel, un brano che parla anche di mobilità. Per te cosa rappresenta il viaggio?

Il futuro, l’incognita. Spesso i bambini in treno, sedendosi sul lato opposto alla direzione di marcia, pensano di poter tornare indietro nel tempo. Ma purtroppo non è così. A questo proposito posso dire una cosa da passeggero?

Certo.

C’è una categoria di persone che, in treno, proprio non sopporto: gli esibizionisti che parlano a voce alta per far sapere a tutti che lavoro fanno. E di nuovo penso che sarebbe bello un mondo senza cellulare.

Articolo tratto da La Freccia di novembre