La vita di un artista comincia a 60 anni. Lo dimostra Picasso che nelle foto celebri ha già i capelli bianchi». Chi parla così ha sviluppato la sua arte insieme alla vita, tra momenti, memorie, ricordi, verso un futuro di grande successo. Il pittore e scultore Lello Esposito ha trasformato i segni della tradizione napoletana, da Pulcinella – «un compagno di viaggio» – a San Gennaro fino al corno scaramantico, in una delle più belle espressioni della materia contemporanea. Segni e gesti che lo hanno reso celebre ai quattro angoli del mondo, senza mai perdere la fantasia del bambino dentro di lui. Con un un Pulcinella da 45 tonnellate ha mascherato il Vesuvio. La vita non lo ha trattato sempre bene, a 11 anni è andato in orfanotrofio e a 14 ha raggiunto uno zio in Piemonte lavorando di sera in una fonderia a Ivrea. «Se molti artisti napoletani oggi lavorano l’alluminio è perché ho insegnato loro ciò che ho assorbito da bambino».
Il Pulcinella di Lello Esposito all’uscita della stazione Salvator Rosa della metropolitana di Napoli
Che momento stai vivendo?
Di rinascita, ci stiamo alleggerendo dopo una fase drammatica. Sento grande energia e attraverso l’arte si può esprimere molto.
L’arte è una leva della positività?
Certamente, apre le strade della creatività, consente di cogliere ispirazioni interiori da ciò che sta intorno a noi, dalle persone che incontriamo. Quan-do poi ci si confronta con la materia di una scultura o i colori di un quadro si trasferiscono queste sensazioni, si prova il brivido della creazione.
Quali emozioni ti appagano?
Quelle che appartengono all’infanzia, al mio vissuto, a ciò che già è stato. Sono sentimenti anche di nostalgia o malinconia, come quelli che si provano ascoltando una canzone. Credo che il ricordo sia l’emozione più bella. Ma mi appaga anche la sfida continua, quella voglia di andare avanti che mi ha dato la forza per nutrire il sogno che avevo da ragazzo: fare l’artista. Andando oltre la tela, oltre i colori, dipingendo con le mani, quasi a scolpire in modo tridimensionale. Non mi basta solo dipingere bene, cerco l’emozione della difficoltà.
Tieni molto al bambino che c’è in te?
I bambini sono i più grandi artisti, possiedono la spontaneità del segno. Una casa, una famiglia, il nonno o la nonna disegnati dai pennarelli colorati di un bambino sono riconoscibili, anche se imperfetti. Si tratta di quella imperfezione che possiedono anche i grandi artisti, che può arrivare pure quando hai i capelli bianchi, il segno divino della verità, la spontaneità che racconta il pensiero ed emoziona.
Lello Esposito e, in primo piano, un quadro del Vesuvio
L’arte è più libertà o responsabilità?
Entrambe le cose. È la libertà di essere artista a tempo pieno, come ho fatto io da oltre 40 anni, e la responsabilità di un progetto più ampio, per me lo studio a Palazzo Sansevero, nel cuore di Napoli, dove coinvolgo i miei collaboratori, che va gestito e sorretto. È un valore che si rinnova anno dopo anno, uno stimolo che affronto con leggerezza.
Ha sede in uno dei palazzi più antichi di Napoli.
Da lì nasce la mia arte, che vuole dare emozioni a chi viene da lontano. Io sono nato tra i vicoli di questa città. Racconto il mio viaggio con Pulcinella, compagno di questa avventura insieme ai luoghi della tradizione. Per me il viaggio è un concetto importantissimo, tanto che il mio sogno è girare l’Europa del Nord in treno. I binari sono come il mare: dall’altra parte c’è un mondo. Pulcinella è venuto con me e si è fatto conoscere a Londra, a Shanghai e a New York, dove ho avuto uno studio prima a Chelsea poi a Brooklyn, in un confronto continuo con gli spazi contemporanei, senza mai tradire la visceralità napoletana. Una metamorfosi continua. Mi disse Massimo Troisi: «Lello vieni a Roma, perché Napoli ti mangia». Io gli risposi: «Vorrà dire che diventerò nutrimento della mia città».
In quale Paese hai trovato più entusiasmo per la tua arte?
Paradossalmente, dove meno la comprendevano. E lì ho capito che la diversità è qualcosa di straordinario, un valore aggiunto. Non mi sono omologato nelle forme, nell’annientamento dell’identità del simbolo, bensì ho colto il loro stile di comunicazione trasformando Pulcinella in installazioni contemporanee. Come a Bonn, dove ho portato il segno della mia storia napoletana, dal Vesuvio a San Gennaro, e un importante critico scrisse: «Finalmente un artista del quale non comprendiamo le forme, ma dobbiamo interpretare il messaggio». È la forza dell’identità.
Sei mai sceso a compromessi nel tuo lavoro?
Mai, ho sempre deciso liberamente, in autonomia, anche scegliendo di donare a Napoli la testa di Pulcinella nel centro storico, o il Pulcinella accanto alla metropolitana Salvator Rosa, con le mani sui fianchi come a dire “eccomi qui” al viaggiatore che esce dalle viscere della città. Durante la pandemia abbiamo trasportato ed esposto all’ospedale Cotugno Gli occhi di San Gennaro, una mia scultura di due tonnellate, posizionandola con lo sguardo verso l’ingresso del pronto soccorso.
Lello Esposito e Andrea Radic alla stazione di Napoli Centrale
Sei ascetico o ti godi la vita?
Sono passionale, molto concreto, sul piedistallo ho messo solo Pulcinella, nonostante molte persone famose siano miei amici e amino la mia arte. Vivo la normalità, quando torno da una mia mostra, la racconto agli amici in piazza, qui nella mia Napoli, che è un contenitore universale di umanità, con un’anima popolare che rappresenta il mondo. Una città esistenziale, che puoi guardare dall’alto verso il basso o viceversa, ma anche capire isolandoti nel barocco di una chiesa.
Sei superstizioso?
Non è vero ma ci credo, come diceva Peppino De Filippo. Forse per questo la mia installazione alla Reggia di Caserta nel 2013 era un corno di 15 metri, per dare un segnale dissacrante, far riflettere e portare attenzione su un luogo straordinario come quello. Alla fine, ha portato fortuna.
Il viaggio in treno che emozioni ti suscita?
Innanzitutto, il design dei treni è una forma d’arte. Poi, viaggiare con le Frecce mi rilassa molto: l’Alta Velocità mi consente di essere a Roma in un tempo minore di quello che serve ad attraversare Napoli. E in treno lavoro, guardo il paesaggio, ritorno bambino, e dopo poco sono a Bologna o a Milano, senza stress. Mi piace anche scambiare due parole con il vicino, sono patologicamente associativo.
Se non avessi fatto l’artista, chi saresti oggi?
Un artista sfortunato.
Il profumo della tua infanzia?
Sono cresciuto a Vico Limoncello, all’Anticaglia. I profumi sono tanti, uno l’ho ritrovato in America: la creolina, un disinfettante per pavimenti. Poi gli odori di cibo, caffè, pizza, caldarroste e quello della colla di pesce che usavano i falegnami. Odori del lavoro, delle botteghe, della creatività. Della
vita.
Articolo tratto da La Freccia
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