Una donna dall’anima libera, forte e profonda, elegante, ispirata e concreta, che trasmette con affascinante professionalità l’essenza dell’artista. Cristina Donadio ha la recitazione nel Dna e una matrice artistica unica, fatta di umanità e forgiata dalla sua terra, Napoli. «Il nostro è un mestiere precario e quando non si lavora è fondamentale essere circondati dagli affetti e dalla quotidianità».
In che modo la città dove sei nata e vivi ha contribuito al tuo lavoro di attrice e all’amore che hai per il teatro?
È una terra che ha prodotto e continua a produrre moltissima arte, a volte anche troppa, nel senso che noi napoletani siamo spesso portati a cantare, ballare e recitare, dimenticando che questo mestiere si basa sul lavoro, la fatica, la dedizione e la cura del dettaglio. Non tutto si basa sull’istinto, è necessaria una grande disciplina per scoprire ogni giorno qualcosa di sé e del mondo che ci circonda. Detto questo, Napoli nutre e stimola continuamente la mente e il vissuto, nonostante le sue contraddizioni, i suoi chiaroscuri.
Dove rivolgi la tua curiosità e il tuo forte entusiasmo?
Verso l’animo umano, perché ciò che più mi affascina è raccontarlo. Sono sempre alla ricerca di personaggi e, soprattutto di storie: è l’anima che le rende universali, anche quando sono drammatiche. Per questo ho messo in scena uno spettacolo che racconta il mio dolore: ho perso il mio compagno in un incidente stradale. E quella sofferenza è diventata un archetipo che mi ha aiutato a superare il momento difficile.
Hai avuto coraggio. Che cosa significa per te questa dote?
In una scala di valori il coraggio è saper mettere in cima la vita e a seguire il lavoro. Perché è proprio ciò che vivo a consentirmi di essere attrice.
Quando hai cominciato a recitare?
La prima volta è stata sul tavolo di legno della cucina dei miei nonni. Noi nipoti salivamo su quello che mio nonno definiva palcoscenico e, dopo l’esibizione, lui ci regalava 500 lire d’argento. A differenza delle mie sorelle e dei cugini che volevano scendere subito, io restavo e dicevo: «Ancora, ancora». Mia madre interveniva chiedendomi di «non fare la pagliaccia» ma io continuavo. Un giorno dissi a mio padre: «Vorrei fare l’attrice». Lui mi rispose: «Ti considererò tale quando vincerai l’Oscar». Una battuta per spingermi a pormi sempre obiettivi alti.
Non glielo hai ancora portato?
No, ma dopo il successo di Gomorra i maestri dell’arte del presepe realizzarono una statuina che mi raffigurava. E allora pensai: «Se ci fosse ancora mio padre gli porterei questa».
Torniamo ai tuoi inizi…
Avevo 18 anni e durante l’estate, con un gruppo di amici attori, tra cui Geppy Gleijeses, decidemmo di mettere in scena alcuni spettacoli. Un giorno venne a vederci Nino Taranto e mi propose di entrare nella sua compagnia dove incontrai persone straordinarie come Dolores Palumbo e Carlo Croccolo. La mia scuola di palcoscenico l’ho fatta lì. Successivamente, ho lavorato con i fratelli Giuffré, Enzo Cannavale e Gennarino Palumbo. Poi, all’inizio degli anni ’80, il mondo del teatro tradizionale di Eduardo De Filippo si è trasformato ed è nato un nuovo modello, guidato da Enzo Moscato e Manlio Santanelli, solo per citare due nomi. E in quella trasfigurazione della drammaturgia mi sentivo a mio agio. Avevamo abbattuto la quarta parete che divideva il pubblico dal palcoscenico, mutando profondamente il paradigma.
I tuoi ti hanno appoggiata nell’affrontare questo mestiere?
La mia è sempre stata una famiglia molto generosa. Quando a 16 anni ebbi mio figlio Antonio, mentre ancora andavo a scuola, i miei genitori mi dissero di stare tranquilla e finire gli studi. Accolsero mio figlio con grande amore, insieme alle mie cinque sorelle e a mio fratello, facendolo vivere sereno e sicuro. Oggi lui vive ai Caraibi con la sua famiglia e ha un ristorante. Io sono mamma, nonna e amica.
Qual è il profumo della tua infanzia?
Quello del pane con il burro, con il pane caldo che mia nonna preparava ogni mattina. E delle frittelle che mangiavamo la domenica: un profumo che mi stringe il cuore. Ancora oggi noi sorelle ci telefoniamo e decidiamo di riunirci per prepararle.
Come attrice porti con te il bagaglio di tutto quello che vivi e scopri.
Certo, perché la mente di un attore è come un guardaroba. I vestiti sono i personaggi e nei cassetti riponi tutte le parole che hai imparato a memoria, basta aprirne uno e torna tutto. Negli scaffali, poi, trovi i gesti e gli sguardi.
Hai lavorato con Paolo Mieli nel docufilm Così Roberto Bracco rifiutò i soldi del Duce, sulla storia di uno dei pochissimi drammaturghi che non presero il sussidio statale per gli artisti durante il regime fascista.
Quando i produttori Rino Pinto e Massimiliano Gallo mi hanno proposto di interpretare Emma Gramatica, attrice dell’epoca, ho visto l’opportunità di raccontare una storia vera. Quella di Bracco, un autore di grandissimo valore candidato al premio Nobel che cadde in miseria pur di non lasciarsi comprare. Un fatto significativo, al di là del periodo, perché il potere non accetta mai idee diverse. Il mio lavoro sul personaggio è stato quello di mantenere l’equilibrio necessario per interpretare una donna ambigua, che da una parte seguiva il regime per aiutare Bracco e dall’altra si lasciava andare agli eccessi dell’epoca. Inoltre, mi ha conquistato lo stile narrativo di Mieli. Per me è stato un grande privilegio.
Quali caratteri preferisci interpretare?
Il teatro greco ha raccontato tutti i sentimenti che ancora oggi abitano l’umanità, senza mai fare sconti e in maniera a volte crudele: la vendetta, il potere, l’odio, l’amore, la passione. Tutto questo è ancora lì. Per arrivare a Scianel di Gomorra sono partita dalla grecità di Clitennestra e Medea. Non volevo interpretare un cliché ma raccontare una persona che ha scelto di essere abitata dal male. E l’ho fatto negli atteggiamenti, nei gesti, nella sua camminata mascolina. Una donna che doveva prendere il sopravvento sugli altri, che andava in guerra. Quindi tuta e scarpe da ginnastica, seppur con gioielli al dito e un orologio d’oro massiccio. Ho cercato di far capire che questi personaggi sono condannati sin dall’inizio a nascondersi, temere tradimenti e vivere senza libertà.
Come ha cambiato la tua vita il successo di Gomorra?
Ha reso il rapporto con il pubblico, che amo molto, ancora più diretto e affettuoso. Mi fermo volentieri a salutare qualcuno o a scattare un selfie, vado a fare la spesa e giro in motorino per la mia città: il nostro quotidiano è vitale. Quando vedo colleghi che rinunciano a una pizza, a un cinema o a entrare in un grande magazzino per il rischio di essere riconosciuti e fermati, provo tristezza per loro.
Ti piace viaggiare in treno?
Lo adoro, ci vivo proprio sul treno, specialmente sul Frecciarossa. Mi consente di viaggiare comoda ed è molto più semplice che muoversi in aereo. Arrivo in stazione e parto senza trafile per arrivare direttamente in centro città. Ma la cosa che più apprezzo è sentirmi accolta: il personale è gentile e sorridente. Io salgo e mi rilasso, posso dormire, ascoltare la musica, studiare un copione, il tutto in un ambiente che mi fa star bene. E poi il treno è da sempre un luogo dove si incontrano persone e si possono scambiare un saluto o una chiacchiera. Nel tempo del viaggio, che duri due o otto ore, il treno è un pezzo di vita.
Da uno a dieci, quanto ha aiutato la bellezza dei tuoi occhi?
Quindici.
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