In apertura Michele Lamaro
Sguardo aperto e occhi sinceri, crede nel rispetto verso gli altri e nel valore della forza del gruppo. Compie 24 anni il 25 giugno e, dopo la Scuola germanica, ha conseguito una laurea in Management dello sport. Insomma, ha tutte le carte in regola per essere l’orgoglio di mamma e papà. Ma non solo. Perché Michele Lamaro, romano, è il capitano della Nazionale italiana di rugby e questo lo rende davvero speciale.
Quello scudetto tricolore che hai cucito sulla maglia è sempre un’emozione o ci si fa l’abitudine?
Non è mai scontato, ogni volta che si entra in campo e si canta l’inno nazionale con questo scudetto attaccato al petto è un’emozione forte. Faccio fatica a immaginare di non provarla, è sempre qualcosa di speciale e così deve essere.
Sei il capitano, il riferimento della squadra: provi più orgoglio o senso di responsabilità?
Chi rappresenta l’intero gruppo ha sicuramente una responsabilità in più dal punto di vista tecnico e umano. A prescindere dal fatto che io sia, innanzitutto, un giocatore e che in campo debba fare prima di ogni cosa il mio dovere e dare l’esempio. Sono fortunato, il gruppo è eccezionale, competitivo, con una grande voglia di arrivare e portare a casa risultati importanti. Stiamo andando nella direzione giusta e il mio ruolo di capitano è quello di spingere il team verso i migliori risultati.
Quando hai preso in mano per la prima volta una palla ovale?
Avevo cinque o sei anni. Un giorno mia mamma portò me e i miei fratelli a provare questo sport che praticavano alcuni nostri amici. È piaciuto subito a tutti noi, poi qualcuno ha smesso ma io sono ancora qui.
Che momento stai vivendo?
Sono una persona che guarda alla vita come a un’opportunità, soprattutto dopo aver subito la frattura del ginocchio. Pronto ad accogliere sia ciò che arriva perché l’ho costruito con tanto lavoro e con le mie forze, sia ciò che accade a prescindere. Sto vivendo un momento molto positivo e sono contento del percorso che sto facendo sia individualmente sia insieme ai ragazzi. Penso che possiamo andare molto lontano e io continuo a lavorare per questo.
Ti piace il rapporto con i tifosi?
Il contatto con i fan è fondamentale, mi consente di capire come viene visto ciò che sto facendo. Mi fa molto piacere recepire l’emozione e la passione che i tifosi trasmettono, un elemento molto importante per continuare a credere in ciò che facciamo.
Hai una famiglia con precedenti sportivi di alto livello: tuo padre è stato anche campione di vela. Che valori hai assorbito?
Mia madre vive lo sport come una necessità fisica e uno svago, mi ha trasmesso amore e passione e mi ha fatto capire che lo sport rende felici. Mio padre, invece, è stato un professionista, olimpionico di vela a Los Angeles 1984 e Seul 1988. Le sue indicazioni mi hanno permesso di superare momenti più o meno difficili, mi ha consigliato molto bene in alcune scelte importanti. Sono molto grato a entrambi.
Sei cresciuto a Roma. Che infanzia hai avuto?
Il mio tempo era suddiviso tra lo studio nella scuola tedesca e il rugby, con frequenti allenamenti e partite nel weekend. Un’impostazione un po’ diversa dal solito, che mi ha caratterizzato e ora fa parte di me. Passare tanto tempo all’aria aperta con i miei coetanei, sul campo dell’Acquacetosa, mi ha consentito non solo di migliorare dal punto di vista sportivo ma di superare anche lo stress dell’impegno scolastico. Stavamo insieme prima, durante e dopo l’allenamento e questo mi ha aiutato a crescere come persona e mi ha insegnato ad apprezzare gli altri.
I valori dello sport ci rendono persone migliori?
Non mi prendo la responsabilità di un’affermazione così importante ma sicuramente lo sport aiuta ad avere una visione diversa. È un grande valore nella vita di un ragazzo e di una ragazza. E poi la disciplina insegna a seguire regole, schemi tattici, di allenamento e di gioco
Il rugby è uno sport divenuto simbolo del concetto di rispetto, anche per la sua percentuale di pericolosità. È così?
I valori che trasmette sono fondamentali anche nella vita. Noi ci affrontiamo viso a viso con lealtà, siamo avversari ma terminata la partita ci abbracciamo come amici. Anche lo scontro fisico fa parte del gioco, più uno dimostra rispetto in questo più viene elogiato, dentro e fuori dal campo.
Qual è lo stato di salute della nostra Nazionale?
Sicuramente dobbiamo crescere come tradizione e cultura, ma stiamo facendo grandi passi in avanti nell’esprimere un gioco nuovo che sta facendo appassionare. Sfruttare le nostre qualità è fondamentale per costruire una mentalità e una squadra vincenti. Dobbiamo giocare con la nostra identità, tirando fuori il meglio. Così aumenta il divertimento in campo e il livello delle prestazioni.
Nel poco tempo libero che hai cosa ti piace fare?
Dirlo può far ridere ma anche in quei momenti mi piace fare sport. Magari in montagna e a contatto con la natura, dove è bello sentirsi piccoli e non i supereroi che, a volte, pensiamo di essere. Con la mia ragazza, Martina, passeggiamo nel verde o andiamo in bicicletta e spesso portiamo anche il nostro cane Ares.
Martina viene sempre in tribuna?
Assolutamente sì. E la cerchi con lo sguardo? Certo, anche se si fa un po’ fatica a individuare le persone. Ma con il cuore ci guardiamo. Il suo sostegno è importantissimo, come lo è quello della mia famiglia. Se sto facendo tutto questo è per renderli orgogliosi e fieri di me. Il tuo rapporto con il treno? Sono un romano che vive a Treviso e quando salgo sul Frecciarossa sono felice perché è sempre un ritorno a casa: verso nord per vedere Martina e i miei compagni della Benetton Treviso, verso Roma per ritrovare la mia famiglia e quella della Nazionale.
Ti piace più stare a tavola o in cucina?
Preferisco sedermi a tavola ma quando mi capita di stare dietro ai fornelli, da buon romano, preparo la pasta. Cucinare è sempre stato un bel momento di condivisione, soprattutto durante le prime esperienze fuori casa. A Padova vivevo con Niccolò Cannone, che è qui con me in Nazionale, e Antonio Rizzi, che oggi gioca a Parma nelle Zebre: cimentarsi con le piccole necessità quotidiane era challenging (stimolante ndr). Un detto afferma che il calcio è stato inventato da gentiluomini ma è giocato da galeotti, mentre il rugby, inventato dai galeotti nelle colonie, è giocato da gentiluomini.
Tu ti senti uno di loro?
Potrei dire di sì ma semplicemente perché ho imparato che esserlo fa bene a me e al prossimo. Non c’è alcuna necessità di essere cattivi e nemmeno scorretti: è un fatto di educazione. A me è stata insegnata e sono contento di conoscerne il valore.
Se un giorno fosse un giocatore di rugby a governare il nostro Paese staremmo meglio?
Questa è una grande domanda per la quale non ho risposta (ride, ndr). Quello che posso dire è che lo sport, non solo il rugby, trasmette un senso di collettività e unità. In qualche modo, è quello che serve per governare. Il lavoro individuale messo a disposizione della squadra.
Articolo tratto da La Freccia
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