In cover, Donatella Finocchiaro © Gianmarco Chieregato
Una delusione d’amore l’ha lasciata annichilita, spaesata. Ha reagito alla tristezza iscrivendosi a un corso di teatro nella sua città, Catania. Ed è stata quella la porta girevole che ha condotto Donatella Finocchiaro verso una carriera come attrice di successo al cinema e a teatro.
«Ho vissuto il classico dramma d’amore dei 20 anni, la crisi esistenziale dalla quale ti sembra di non poterti sollevare. Ma ho reagito, cercando qualcosa che desse un senso a tutto e trovandola in un corso di teatro. Mi piaceva moltissimo, sentivo quella passione che sale e sale, così alla fine del corso mi sono presentata agli esami di ammissione per l’Accademia nazionale d'arte drammatica Silvio d'Amico. Ero insieme a una collega, ci facevamo da spalla a vicenda recitando La casa di Bernarda Alba di Federico García Lorca, io interpretavo Adele. Passo la prima selezione, ma non la prova scritta. Mi ostino e, dopo qualche mese, entro al Teatro Stabile di Catania. Così, mi dividevo tra il praticantato in uno studio legale e la recitazione: la mattina in tribunale con la borsa da avvocato e la sera sul palcoscenico. A 20 anni lo fai, hai un’energia vitale incredibile, ricordo che facevo anche arte, danza, canto lirico, fotografia, tutto ciò che mi piaceva. Quanta tristezza nel vedere tanti giovani che oggi restano fermi, chiusi nella loro stanza senza seguire la voglia di conoscere e scoprire. La nostra società ha grandi colpe per tutto questo». E mentre parla la sua energia traspare da occhi e dal viso, immutata oggi come allora.
Donatella Finocchiaro nello spettacolo Il filo di mezzogiorno © Mario Spada
I tuoi genitori erano d’accordo sul fatto che studiassi teatro?
Mio padre non proprio (ride, ndr). Mi diceva: «Prima ti laurei e poi vediamo». Quando ero a Roma mi chiamava ogni sera, alle 22, per farmi desistere. Ma io niente, insistevo con passione e caparbietà. Poi un giorno venne a vedermi a teatro, recitavo nell’opera Le Mosche, di Jean-Paul Sartre. E alla fine mi disse: «Adesso ho capito perché vuoi fare l’attrice. Ma ricordati che il piatto di pasta a tavola non devi farlo mancare mai». Quando lasciai l’avvocatura fu difficile, il primo anno rimasi ferma, nessun ruolo. Poi attraverso lo Stabile cominciai a lavorare con Lina Sastri e con Benedetta Buccellato. Un giorno arrivò a Catania la regista Roberta Torre, cercava un’attrice siciliana per il ruolo da protagonista nel film Angela, mi scelse e cominciò tutto.
Un possibile futuro magistrato che inizia con un ruolo da criminale: quasi un contrappasso. L’interpretazione, per te, è più una questione di studio o nasce da una scintilla attoriale?
Ne parlavo sere fa con amici attori dopo aver visto uno spettacolo di Elio Germano. Dicevamo proprio di quanto sia bello venire assorbiti dal personaggio e dimenticarsi completamente di se stessi. È la magia della recitazione. Certo devi studiare ogni passaggio emotivo, ma poi vai in scena. Quando un regista è capace di metterti nelle migliori condizioni, anche eliminando qualche aspetto tecnico a favore dell’istinto, riesci davvero a vivere il ruolo. Torre è stata la mia prima grande maestra, io non avevo mai visto una macchina da presa e lei mi diceva: «Non guardarla, assecondala, ma cerca di non accorgertene». Secondo lei, avevo una capacità innata. Ma io ho cercato sempre di migliorare. Voglio raggiungere quel livello di verità capace di farmi scomparire dentro al personaggio.
A teatro cosa è più importante per te?
L’energia: nel lavoro di Mario Martone Il filo di mezzogiorno ,che stiamo portando in scena con Roberto De Francesco (e sarà in tour dal 4 aprile al 5 giugno, ndr), recito per un’ora e 40 minuti interpretando una donna dalla mente provata, Goliarda Sapienza, scrittrice e attrice realmente esistita. Recitare la follia è sempre una grande scommessa, devi saper tenere il ritmo della scena. Ho intrapreso un viaggio catartico nella disperazione di Goliarda, che non voleva arrendersi alla malattia ma uscirne. Un’evoluzione continua, un viaggio dell’anima.
Donatella Finocchiaro con il giornalista Andrea Radic
Di Catania, la tua città, cosa conservi nel cuore?
La luce: è diversa e lo capisci appena arrivi in Sicilia. E poi gli odori e il ricordo di quando scendevo al mare in bicicletta. Sono cose che mi mancano, come mi manca la mia famiglia, mio padre, mio fratello, i parenti e gli amici di sempre. Appena posso scappo a Catania, vado a via San Giuliano, a via Etnea. È casa mia.
Tua figlia ti segue sul lavoro?
Quando era più piccola veniva con me sui set, stava al trucco e mi aspettava. Ora, che ha sette anni, la porto anche a teatro: è successo per Il filo di mezzogiorno e Taddrarite, di Luana Rondinelli, che ha visto cinque volte in sala. Lo sa a memoria, ripete le battute di tutti i personaggi mentre gioca in camera sua e per me è un’emozione grande anche se mi terrorizza l’idea che possa fare l’attrice. Ha il suo posto in un piccolo palco, il direttore di scena già lo sa e glielo indica tutte le volte. Adesso, ha cominciato addirittura a invitare gli amichetti.
Se tornassi bambina, quale sarebbe il profumo della tua infanzia?
Il gelsomino, il mare, la salsedine. Il primo lo sentivo in primavera, quando arrivavo nella mia città in treno e aprivo il finestrino. Da bambini andavamo sempre al mare, mio padre ci ha buttati nell’acqua a due anni dicendo: «Nuota». Ne aggiungo un altro, quello dell’arancino, con la “o” finale, come si dice a Catania.
Ami più interpretare protagonisti contemporanei, realmente esistiti, o personaggi di fantasia?
Mi è capitato di recitare entrambi i ruoli. Nel mio percorso attoriale non utilizzo la tecnica dell’imitazione, bensì quella di metterci l’anima. È un mestiere complicato, devi entrare dentro il personaggio per non risultare una sua fotocopia sbiadita.
Sei stata più volte paragonata ad Anna Magnani.
Avere un quarto della sua aura sarebbe già moltissimo. Nel frattempo, dopo 20 anni di carriera, cerco di essere coerente con il mio gusto e le scelte professionali. Mi pongo molte domande: accettare un ruolo oppure no? Abbracciare il progetto di un’opera prima? E se poi non si crea il giusto feeling con il regista? Il rischio della delusione è sempre presente. Io sono stata fortunata, ho sempre lavorato con anime belle, da Torre a Marco Bellocchio, da Emanuele Crialese a Mario Martone, persone con le quali ho rapporti meravigliosi. Prima, quando saltava un progetto mi arrabbiavo molto. Oggi sono fatalista: se non accade qualcosa è perché non deve accadere. Ed è meglio così.
Non sopporti l’arroganza, quindi. Che cosa apprezzi?
La gentilezza, il saper essere garbato con chi hai di fronte. Una vera rarità.
Che emozioni ti provoca viaggiare in treno?
Per le tournée teatrali mi sposto molto, ormai è diventato una seconda casa. Prendere il treno non è solo viaggiare con il corpo ma anche farlo con la mente, che si apre completamente nel guardare e conoscere nuovi luoghi. Una sensazione di meraviglia che ti fa tornare un po’ bambina. Ricordo con grande piacere quando, per un provino a Roma, ho viaggiato in vagone letto: è stato bellissimo. Dormivo e mi presentavo fresca e bella la mattina successiva. Oggi scelgo il treno perché ti regala quel momento per te, dove puoi fare mente locale e riflettere.
Tra le tue esperienze professionali, quale ti piacerebbe rivivere?
Ne ho vissute molte, grazie alle anime belle che ho incontrato sul mio per corso. Forse vorrei tornare a lavorare con ciascuno di loro, per provare altre bellissime sensazioni arricchite dall’esperienza.
Articolo tratto da La Freccia
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