In apertura, Schiuma e faro (2018) di Paulina Herrera Letelier allestita sulla scogliera di Mangiabarche a Calasetta (SU) Courtesy l'artista e Fondazione Macc

«La felicità è avere un filo a cui appendere le cose. [...] Filo che, negligentemente immerso nel tesoro di un’onda, tornerebbe alla superficie ricoperto di perle». Queste parole di Virginia Woolf tratte dai suoi Diari (1925-1930) sono in grado di incorniciare, come poche altre, la storia di cui scrivo in questo mese di settembre. Una storia intessuta da fili variopinti attraverso il telaio di miti, leggende, riti, tradizioni e saperi che affondano nella preistoria per approdare fino ai nostri giorni.

Siamo nel sud-ovest della Sardegna, nella punta più estrema nord-occidentale della quieta isola di Sant’Antioco, la maggiore dell’arcipelago del Sulcis (SU). È l’antica patria di lentischi e ginepri, dove l’aria rapisce le essenze odorose trasportate dal maestrale per profumare uno dei borghi marinari più belli e suggestivi d’Italia: Cala di Seta o, meglio, Calasetta. Ed è proprio un filo a dare il nome a questo centro arroccato su una collinetta e incastonato su tre lati dalle meravigliose spiagge di Cussorgia, Sottotorre, La Salina, Spiaggia Grande, dalla sabbia bianca e finissima. Ci troviamo infatti nella terra della “seta di mare” ovvero del bisso, un filato straordinariamente soffice e dorato già citato nella Bibbia per la fattura degli abiti di re Salomone e della regina Ecuba. Il bisso si ottiene da un filamento che secernono alcuni molluschi nei fondali, una sorta di incrocio tra ostriche e cozze, alti fino a un metro e mezzo.

Il faro di Mangiabarche a Calasetta

Il faro di Mangiabarche a Calasetta Courtesy Fondazione Macc © Roberto Zucca

È poi un vero e proprio ricamo di culture e tradizioni, insieme liguri, tunisine e sabaude, la storia recente di Calasetta che inizia nel 1769. Quando 38 famiglie di pescatori di corallo (e poi di tonni), originarie di Pegli nel ponente genovese ma provenienti dall’isola tunisina di Tabarka, chiedono al re Carlo Emanuele III di Savoia di popolare anche la costa settentrionale dell’isola di Sant’Antioco. I 130 coloni tabarchini si insediano così a Calasetta, lungo le vie costiere di passaggio dei tonni, conservando il dialetto ligure che ancora oggi riecheggia tra i caruggi, gli stretti vicoli del centro sardo. Poi arrivano i coloni piemontesi a cui si deve tra l’altro il vino tipico del territorio, il rinomato Carignano del Sulcis Doc coltivato “a piede franco”, cioè con radici proprie non ibridate.

Alla trama e all’ordito di un tessuto pregiato corrisponde anche la concezione urbanistica “a scacchiera” dell’abitato, secondo il progetto settecentesco dell’ingegnere sabaudo Pietro Belly. Le strade sono pertanto rigorosamente rettilinee facendo del borgo un caso unico in Sardegna. Ogni via è un inanellarsi di case dal caratteristico colore bianco interrotto solo da discreti inserti azzurri e, spesso, da una targa in maiolica dipinta posta accanto all’uscio con i nomi di battesimo dei proprietari e il soprannome familiare attributo dalla comunità.

Mi soffermo così a leggerne una che recita «a cá du Giorgio e da Olimpiade l’urpe (“della volpe”, nda)», quando giunge sulla porta la signora Olimpia in persona, intenta a confezionare dei gustosi sali aromatizzati al mirto e all’elicriso per conferire ai cibi sapidità davvero impareggiabili. Tra le cucine delle abitazioni private e dei ristoranti è un rincorrersi di prelibatezze, a partire dal tonno lavorato in tutte le salse, è il caso di dirlo. Le gastronomie liguri e tunisine hanno poi prodotto a Calasetta delle pietanze che rappresentano un’irresistibile fusione di sapori, come il pilau (un sugo preparato con cicala e capra di mare usato per condire la fregola sarda) e il cascà (il couscous alla calasettana).

Il Museo Macc a Calasetta (SU)

Il Museo Macc a Calasetta (SU) Courtesy Giorgio Marturana e Fondazione Macc © Giorgio Marturana

Ma a rendere ancora più sorprendente la scoperta del borgo è il museo d’Arte contemporanea di Calasetta (Macc). Inaugurato nel 2000 nei locali dell’ex mattatoio comunale, ospita la collezione di opere degli astrattisti europei del '900 donata dal pittore Ermanno Leinardi, che ha vissuto qui fino alla sua morte nel 2006. Questo spiega la presenza di oltre 140 lavori esposti a rotazione realizzati da artisti come Lucio Fontana, Josef Albers, Atanasio Soldati, Giuseppe Capogrossi, Piero Dorazio, Bruno Munari, solo per citarne alcuni. E dal drappello degli sperimentatori sardi tutti da riscoprire: da Antonio Atza a Giovanni Campus, Rosanna Rossi, Vincenzo Satta, Italo Utzeri, Gaetano Brundufino alla poliedrica Zaza Calzia.

«Il motivo principale che mi ha indotto a donare al Comune di Calasetta la mia collezione è di ordine per così dire didattico», ha dichiarato Ermanno Leinardi. «Infatti costituisce per me un mistero il fatto che una società possa sviluppare il suo gusto estetico senza avere gli elementi concreti a cui fare riferimento; quando non ha gusto estetico, la società opera negativamente: è sotto i nostri occhi lo scempio di paesaggi e di insediamenti urbani», aggiunge.

Nel solco di questo sfidante testamento spirituale oggi il Macc è guidato da una presidente illuminata, Maricarla Armeni, e da un direttore artistico, Efisio Carbone, che, con il sostegno e la fiducia dell'amministrazione comunale, in pochi anni ha fatto del museo di Calasetta una delle gallerie civiche d’arte contemporanea di riferimento in Italia, molto più di tante altre in centri blasonati lungo lo Stivale. Qui, infatti, si valorizza periodicamente la collezione permanente insieme agli autori del territorio, a partire dalle più importanti artiste di Sardegna, come Maria Lai, Zaza Calzia, Rosanna Rossi e Lalla Lussu, fino alle ultime generazioni come il talentuoso Ruben Montini.

L’opera Dove sto con me-Solo (2016-17) di Ruben Montini, allestita in occasione della mostra al Macc Genius Loci-Maestri di Sardegna (2018)

L’opera Dove sto con me-Solo (2016-17) di Ruben Montini, allestita in occasione della mostra al Macc Genius Loci-Maestri di Sardegna (2018) Courtesy l’artista e Fondazione Macc

Il mondo dell’arte internazionale fa tappa ogni anno a Calasetta attraverso un fitto programma di residenze internazionali curato da Claude Corongiu che, dal 2018, ha portato a interagire con il territorio e le sue tradizioni artisti del calibro di Paulina Herrera Letelier e Francesca Romana Motzo, Marlon de Azambuja, Maria Chiara Baccanelli, Susana Pilar, Omar Rodríguez-Graham, Andrea Galvani, Julius Heinemann, Miki Yuio Zhanna Kadyrova.

Un’ulteriore finestra sul mondo si apre con mostre tipo Dulce bellum inexpertis. Dolce è la guerra per chi non l’ha vissuta (fino al 15 ottobre), una preziosa collettiva a cura del direttore artistico del Macc, che accoglie i lavori di autori che si sono distinti sulla scena globale per la loro indagine su istanze politiche e sociali, tra cui Filippo Berta a Zehra Doğan, Regina José Galindo, Santiago Sierra, Eva Fischer, Maria Lai, Carol Rama. Lo scopo è sempre lo stesso: scoprire inusuali esperienze di ricerca in grado di restituire un territorio aggiornato ai tempi, distante dagli stereotipi più comuni, dove isola non è isolamento ma spazio di convivenze in cui sottili rimandi tra passato e presente sono più chiari, meno disturbati da interferenze quotidiane.

«Sull’isola i silenzi profumano di eterno, ecco perché è più facile ascoltare», aggiunge Carbone. Si conclude così la mia prima visita a Calasetta dove, prendendo in prestito alcune parole di Isabel Allende, la vita è concepita come un arazzo che si ricama giorno dopo giorno con fili di molti colori, alcuni grossi e scuri, altri sottili e luminosi, ma tutti i fili servono.

Articolo tratto da La Freccia