Nelle immagini alcune sale espositive del Museo Caruso, all'interno del Palazzo Reale di Napoli
Orgogliosa della sua storia e del passato, Napoli non dimentica i geni che si sono imposti grazie a un’eccezionale forza di volontà, nonostante studi semplici e un livello sociale modesto. Uno di questi è il tenore Enrico Caruso a cui è dedicato il Museo omonimo, all’interno del Palazzo Reale diretto da Mario Epifani.
La curatrice Laura Valente spiega che è un racconto in cinque capitoli per descrivere la vita dello straordinario artista che da ragazzo lavorava in fonderia e suonava nei locali per guadagnarsi da vivere. Un luogo dove si entra per ascoltare, grazie a un archivio di migliaia di brani digitalizzati, tra cui ’O sole mio e La donna è mobile.
Il primo capitolo di questa straordinaria biografia si intitola Figlio di Napoli e rimanda agli esordi di Enrico Caruso, quando Giacomo Puccini, pur ascoltandolo con diffidenza, rimase meravigliato da una voce non tradizionale, che sembrava “mandata da dio”.
La seconda sezione è Il mondo intero parlerà di lui, che ricorda la performance al teatro San Carlo, dove il pubblico chiese il bis del brano Una furtiva lagrima, aria dell’Elisir d’amore. Ma in quell’occasione si parlò di fischi in sala, anche se nessuno mai li sentì. Una notizia falsa, infatti, messa in giro da critici non ancora pronti a comprendere un talento che incarnava la nobiltà del bel canto e il fraseggio antico, uniti a una tinta popolare, sanguigna e forte di un interprete visionario.
Lasciata Napoli, Caruso arrivò a Milano, al Teatro alla Scala, simbolo del melodramma nel mondo, dove anche Arturo Toscanini fu costretto ad ammettere l’unicità del cantante. A questo punto varcò i confini dell’Italia diventando una star incontrastata negli Stati Uniti, come narra il terzo capitolo Un uomo nuovo a New York, un anarchico del canto. Incise su un disco, assoluta novità per un lirico, l’aria Vesti la giubba dall’opera Pagliacci di Ruggero Leoncavallo, che raggiunse un milione di copie vendute.
Il successo prosegue nel capitolo quarto Tutti vogliono Caruso: gli viene richiesto di recitare in quattro film muti, tra cui My cousin, proiettato nel museo. Da lì si crea un effetto influencer ante litteram: le scatolette di alici dell’Alaska, 180 ristoranti, conserve di pomodori e sigari cubani si chiamano Caruso. A chiudere la mostra è il capitolo Una voce senza fine.
In esposizione anche alcuni oggetti personali inediti, come un apparecchio a rulli o un giradischi del 1930, qualche costume di scena, gli spartiti con note autografe, alcuni acquarelli e simpatiche caricature che lui disegnava.
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