In apertura, Goshka Macuga Conogo (2023). Courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo
Un missile gigantesco nel cortile nobile di Palazzo Strozzi, in procinto di decollare. È il razzo blu metallico di Goshka Macuga, artista polacca che vive a Londra, direzionato verso l’empireo del contemporaneo e pronto a esplorare il firmamento delle stelle più luminose dell’arte italiana e mondiale.
Un viaggio intergalattico alla scoperta dei big e delle maggiori sperimentazioni degli ultimi decenni, a partire dalle indagini del dopoguerra.
E se è vero che le espressioni artistiche sono la cartina tornasole e la lettura alternativa del circostante, allora nel più famoso dei palazzi rinascimentali fiorentini si può trovare la storia degli ultimi 50 anni. Quella della società in evoluzione, con riflessioni individuali e collettive in merito ai diritti civili, alle identità di genere, alle lotte politiche per le minoranze. Reaching for the Stars. Da Maurizio Cattelan a Lynette Yiadom-Boakye è la mostra, curata da Arturo Galansino fino al 18 giugno, che non nasconde la sua spettacolarità e celebra i 30 anni della Collezione Sandretto Re Rebaudengo con oltre 70 opere della raccolta torinese famosa in tutto il mondo.
Maurizio Cattelan La rivoluzione siamo noi, dettaglio (2000)
I nomi e le opere presenti sono davvero stellari: Maurizio Cattelan, Cindy Sherman, Damien Hirst, Lara Favaretto, William Kentridge, Anish Kapoor, Sarah Lucas, Lynette Yiadom-Boakye, solo per citarne alcuni. Con occhi visionari e antenne ipersensibili, gli artisti e le artiste denunciano, raccontano, inneggiano e si schierano per il Pianeta fragile e attanagliato dall’erosione antropica.
Così il razzo gigante che accoglie i visitatori è senza motore e quindi non consuma né cielo né carburante e anche le opere di Hirst alludono alla fragilità del genere umano con la vana ricerca dell’immortalità, rappresentata dai processi di imbalsamazione attraverso la formaldeide.
Impertinente e iconico, giocoliere sopraffino e provocatorio, Maurizio Cattelan è uno degli italiani più presenti con cinque opere tra cui una delle prime: il sacco da trasporto pieno delle macerie di una parete del Padiglione di arte contemporanea di Milano colpito, nel ‘94, da una bomba mafiosa. Il suo scoiattolino Bidibidobidiboo, che si è appena suicidato su un tavolo da cucina con una rivoltella, è estraniante e «rovescia il rassicurante scenario disneyano in una totale perdita di speranza», chiarisce Galansino.
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Come inquietante è La rivoluzione siamo noi, il pupazzo iperrealista che ritrae l’artista padovano appeso per la collottola a un appendiabiti: i suoi occhi, incorniciati da folti sopraccigli, fissano i visitatori dal basso verso l’alto e creano un vero e proprio disagio dialettico.
Il corpo percepito, indossato, rappresentato come identità e il ribaltamento degli stereotipi sono spesso al centro della riflessione delle artiste presenti. Da Cindy Sherman a Barbara Kruger, da Sirin Neshat a Sarah Lucas, fino a Paola Pivi e alla performer genovese Vanessa Beecroft, che in mostra porta il suo “alieno rosso”. Una figura asessuata, esule e flessuosa, senza nessuna plasticità corporea, che riempie lo spazio della tela. «Non si trattava di arte, il disegno doveva visualizzare la mia ansietà… Volevo fare un disegno che mostrasse quello che sentivo», spiega.
Sono le figure monocrome dei suoi primi lavori, ispirate alle linee di Henri Matisse ed Egon Schiele, che rappresentano le sofferenze per le patologie alimentari, come anoressia e bulimia, riconosciute tali negli anni ‘90.
Se la donna mutilata e senza testa di Berlinde De Bruyckere si raccoglie in un gesto di autoprotezione, quella ritratta dall’iraniana Shirin Neshat è una guerriera coperta quasi completamente dal velo che, sicura di sé, punta la pistola contro chi la osserva. Sulle parti del corpo esposte alla vista, in lingua farsi, l’artista sovrascrive versi di poetesse iraniane. Quando, invece, si incontra il gigante orso di Pivi, ricoperto di piume gialle a manifesto delle identità uniche e non imbrigliabili in categorie standardizzate, è evidente che l’arte possa spronare a superare i confini del pensiero comune e sia capace di spingerci nello spazio aperto delle libertà di essere e di pensiero.
Articolo tratto da La Freccia
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