Spumeggiante, sorridente, estroverso. Ci sediamo su un divano nero, nel suo ufficio in piazzale Cadorna, nella sede milanese di Condé Nast. Lui con i suoi pantaloni di seta rossa a decori floreali, pieno di colorata energia e luminose visioni. Alle spalle, un’intera parete di cover in miniatura di Vanity Fair.
Simone Marchetti ne è direttore da pochissimi mesi. E ha già rivoluzionato una testata che ormai è ben altro da un semplice magazine. È un ecosistema che si autoalimenta e genera attenzione e stupore nei suoi fruitori, coinvolgendoli come follower, lettori, spettatori e anche attori, nello spazio digitale dei social e in quello reale di tanti eventi live.

Dopo 12 anni al gruppo Gedi (editore di Repubblica ed Espresso), dove hai scritto di moda, cultura e costume, sei approdato, come direttore, a una delle testate di punta nel mondo del fashion. Chi e cosa ti hanno convinto ad accettare questa sfida?
L’editore, nella persona dell’amministratore delegato di Condé Nast Italia, Fedele Usai, e la sua chiarissima visione del presente e, probabilmente, del futuro dell'editoria, che condivido e mi ha subito entusiasmato.
E qual è?
Intanto non si parla mai di sito, di carta o di eventi. Si parla di un network organico. Un sistema ecosostenibile, con radici profonde, con un modello di business stabile che genera altri mondi. Se ci si focalizza soltanto su uno di questi mondi, si perde.
Ecco che hai bruciato la mia solita domanda, sopravvivrà la carta?
Non si può più pensare soltanto alla carta. Ma il discorso vale anche per chi ha inseguito la chimera della rivoluzione mediatica, concentrandosi solo su un social network, per esempio su Facebook, e oggi si ritrova con un pubblico di ultraquarantenni. E gli altri li ha persi, perché sono su Instagram o su TikTok, il social network di videosharing. No, oggi bisogna proporre un palinsesto di informazione e intrattenimento agendo in maniera organica su varie piattaforme. Ho letto che consideri Vanity Fair come un’opera in tre atti.
Quali sarebbero?
Il primo atto è virtuale, con il protagonista della copertina studiamo un progetto artistico e produciamo dei contenuti che postiamo sui nostri social. Promuoviamo così un'attività virale, anticipiamo la notizia e la amplifichiamo. Come se fosse il trailer di un film, anzi di più, perché stiamo già raccontando e facendo interagire le persone, comprese quelle che magari non comprano il giornale.
Dal mondo digitale poi si passa alla carta?
Sì, ma intanto abbiamo suscitato l’interesse anche degli altri media, che hanno scritto e parlato di noi. Così, quando il mercoledì a Milano e il giovedì nel resto d'Italia va in scena il secondo atto, ed esce Vanity, un bel pezzettino della nostra community sarà sempre più propenso a fare quel gesto eroico di tornare in edicola a comprare il giornale, perché ne ha già avuto un assaggio. Le edicole chiudono, ma i nostri dati di vendita migliorano.
Insomma, vi autopromuovete, giocando anche sulla curiosità?
Perché è importante creare l'aspettativa e non essere mai rassicuranti. Ogni volta le persone devono chiedersi: «Cosa avranno combinato questa settimana di nuovo?».
Le tue copertine non passano certo inosservate. Come quella con Raffaella Carrà che, se non erro, consideri la prima veramente tua. L’esordio di quello che lo scorso 12 febbraio, nel cocktail di presentazione all’Istituto dei Ciechi di Milano, hai definito “the next act”.
Ma sì, il giornale in edicola devi vederlo subito, con la copertina devi conquistare, interessare e appassionare le persone. Per questo ho reintrodotto il linguaggio della moda, del trattamento e del culto fotografico. Uno strumento popolare come Vanity Fair deve portare la bellezza sofisticata, dirompente, controversa nel popolare.
Non è che le immagini catturando l’attenzione rischiano di distoglierla dai contenuti?
All’opposto. Sopra la testata abbiamo messo una citazione dal romanzo La Fiera della Vanità: «Quello che è non è quello che sembra». Siamo tutti affascinati da quello che sembra, ma noi ci sforziamo di raccontare quello che è. Così i contenuti e le nostre storie sono diventate ancora più profondi e più lunghi. Perché non è vero che le persone non leggono più, vanno però conquistate. Anche sul sito e sui nostri canali social stiamo testando contenuti più profondi che, all'inizio, ti prendono con l'immagine e la bellezza, ma poi ti portano ad affrontare l'informazione più approfondita, che è uno dei problemi della contemporaneità.
Occorrono anche firme all’altezza.
Infatti, ho voluto con me grandissimi giornalisti, filosofi, scrittori come Mattia Feltri, Eshkol Nevo, Roberto D'Agostino, Daria Bignardi, e anche artisti italiani come Maurizio Cattelan, insieme a Francesco Vezzoli. Il nostro non deve essere mai un laboratorio di sicurezza o di canoni da "femminile classico". Anche se la maggior parte dei nostri lettori è donna, non vuole più sentirsi dire cosa cucinare, come governare la casa o se mettersi o no la gonna. Ha bisogno di bellissime storie. E così abbiamo riconcepito il settimanale quasi fosse una fanzine, un giornale di nicchia che diventa popolare.
Ma siamo rimasti al secondo atto. E il terzo?
Consiste in un'esperienza fisica e reale. Abbiamo inaugurato qui, nella nostra sede, un teatro Vanity Stage, dove attori, scrittori e cantanti vengono ad esibirsi dal vivo per il nostro e il loro pubblico. In un'epoca così virtuale creiamo un'esperienza viva, restando editori e giornalisti. È un nuovo modo di fare storytelling, di catturare un'altra audience e diventare un network. Con Laura Pausini e Biagio Antonacci, protagonisti di una nostra cover, ci siamo addirittura spostati fuori dalla Condé Nast, e questa esclusiva esperienza live ha trovato ospitalità, grazie a un gemellaggio con Giorgio Armani, nel suo teatro, l’Armani Privé, nel centro di Milano.
Oltre a tutto ciò avete anche un vivacissimo sito web...
Che aggiorniamo ogni minuto.
Insomma, produzioni multimediali, coinvolgimento diretto e anche live della vostra community. Basta così?
No, il nostro network includerà presto anche la televisione. Produrremo grandi iniziative che andranno in onda su uno dei nostri canali del cuore. E il nostro racconto si svilupperà poi in una serie di eventi che riporteranno in auge l'eccellenza italiana, il primo lo realizzeremo durante il Festival del Cinema di Venezia. Questi eventi si moltiplicheranno nel tempo con l’obiettivo di trasferire l'informazione e l’intrattenimento del grande palcoscenico di Vanity Fair nella realtà, per tutta Italia e poi anche all'estero.
È una vera trasformazione del ruolo di editore e giornalista.
È l’unico modo per restare competitivi e incisivi nel mercato: ampliare il raggio d’azione e cambiare la nostra prospettiva. Io già nel 2008, quando lavoravo a Velvet, mensile di Repubblica, ho capito e ho detto al direttore, Enzo Mauro, che non mi interessava più fare la carta stampata. Avevo l'iPhone e vedevo cosa stava succedendo all'informazione. Nel 2012, quando sono tornato al quotidiano, ho cominciato a fare tutte e due e ho capito che non si trattava di compiere una scelta di campo, ma di pensare il business in modo più organico. Questo è un momento fecondo e duro, è in atto una grande rivoluzione culturale. Però bisogna preservare la qualità.
I cui presupposti sono professionalità ed esperienza, mentre sul web sembra prevalere l’improvvisazione e l’estemporaneità.
L’esperienza formativa è fondamentale. Per me lo è stata quella alla grandissima scuola di Repubblica, per esempio al visual desk, quando per primi al mondo, anticipando New York Times e Condé Nast America, mettevamo online le foto e le recensioni delle sfilate appena concluse. O con gli hangouts dialogavamo con i grandi stilisti come Donatella Versace, Miuccia Prada, Frida Giannini, sperimentando delle interazioni con il pubblico davvero pionieristiche. Ecco, serve professionalità unita al desiderio di mettersi sempre alla prova e non confinarsi mai in una comfort zone. Da noi è la regola quotidiana.
Puoi darmi altri esempi?
Sperimenteremo nuove forme di informazione e intrattenimento, non solo video. Stiamo studiando alcune iniziative congiunte con grandi partner e altri editori. Intanto abbiamo portato in redazione quattro registi, che lavorano a f anco dei giornalisti e li aiutano ad interpretare in un modo visuale quello di cui parlano, quando è possibile, ovviamente. Occorre rendere la notizia tridimensionale, uscire dal classico schema titolo, sommario, testo, e vedere, poi se e come espanderla in evento, mostra, libro.
Per fare tutto questo occorre una redazione con i controfiocchi.
E la nostra lo è. Una cinquantina di persone, alle quali si aggiungono i collaboratori esterni, i fotografi, la forza vendita e la grande macchina di Condé Nast. Sono pochi gli editori che possono contare su uno staff così preparato ed efficiente.
Mi piace pensare a un’orchestra, con le varie sezioni…
Ma, da noi, tutti fanno tutto. In una delle prime riunioni ho chiesto di abolire la maledetta parola “integrazione”. Ovviamente, quando scrivi per il cartaceo, devi avere una tecnica e un approccio diversi rispetto al web o a quando fai un post oppure organizzi un evento.
Senti, si parla spesso dell’eccentricità del tuo outfit (ammicco ai suoi pantaloni, e ride...)
Guarda, gli italiani sono spesso i peggiori nemici di loro stessi perché si dimenticano di quanto sono eccezionali. Io me ne sono accorto viaggiando, le grandezze che tutti ci riconoscono spesso noi le ignoriamo. Una di queste grandezze è la moda. Noi accendiamo i sogni del mondo e abbiamo un'eccellenza artigianale che ha molto da insegnare a livello di eco-sostenibilità, diritti dei lavoratori e creazione della bellezza. È un'eccellenza grandiosa e non vedo perché, noi per primi, non dobbiamo crederci. Perché dobbiamo rassegnarci a vestire in modo convenzionale quando siamo i primi a inventare una bellezza che è progressista e cambia gli equilibri. Io ho deciso di viverla fino in fondo, per cui l'emancipazione che ho in testa per prima cosa me la metto anche addosso. Penso sia uno strumento di liberazione e di autoaffermazione personale. 
La moda, così come la descrivi, produce ricchezza, non soltanto economica e acquisisce nuovi significati.
Sì certo, pensa cosa è successo con Gucci. È un brand che ha imposto a tutti nuove regole di superamento degli orientamenti sessuali, puntando all'inclusione e all’antirazzismo. Ma un’altra cosa che stiamo facendo a Vanity Fair è presentare la moda non più come uno status, ma come un linguaggio, anche per liberare i talenti dai loro stessi personaggi. Per esempio a Laura Pausini abbiamo fatto indossare abiti di Armani e di altri stilisti e siamo riusciti a far emergere tutta la sua delicatezza femminile, come un personaggio di Bergman, mentre finora era stata ritratta sempre con tratti forti e decisi, da Wonder Woman.
Usando la moda come linguaggio ricordate agli italiani quanto siano poco consapevoli delle loro qualità...
La moda è un contenitore di cultura e significati e questo noi italiani o lo diamo per scontato o non lo sappiamo. Io voglio che questo giornale sia profondamente italiano, l'art director è italiano, lo sono gli artisti con cui lavoriamo, come Maurizio Cattelan che farà per noi un intero servizio di moda in occasione della Biennale Arte di Venezia. Sarà qualcosa di forte, farà discutere, mi attaccheranno tutti.
Ma…
Riusciremo a portare quel particolare linguaggio fuori dal ristretto circolo dei musei o delle gallerie d'arte contemporanea, offrendolo a tutti. Perché, concludiamo noi, ogni intelligente provocazione e contaminazione scuote gli animi e spinge le menti a interrogarsi, e a risvegliarsi dagli sterili torpori.

Articoli correlati