Foto Paolo Verzone
01 luglio 2019
Donna Moderna ha compiuto 30 anni nel 2018. È il settimanale femminile più letto in Italia. Abbiamo incontrato la sua direttrice, Annalisa Monfreda (che dirige altri due femminili molto popolari come Starbene e Tu Style), ad apertura di un numero de La Freccia che, fin dalla copertina, parla molto di coppie: nello spettacolo, nell’arte, nella vita. Perché la dialettica femminile-maschile è la chiave di interpretazione di tante vicende umane, da quelle psicologiche, che riguardano l’intimo di ciascuno di noi, fino a quelle sociali e storiche. L’evoluzione del ruolo della donna nella coppia, e nel nostro Occidente, è causa-effetto di profonde e, per lo più positive, trasformazioni culturali e socio-economiche.
Dai dati che ho il 93% dei vostri lettori è donna, sul web sono due su tre. Che significa scrivere per le donne?
La rivista è nata quando le donne iniziavano a emanciparsi dalla famiglia di provenienza per entrare nel mondo del lavoro, e volevano tenersi tutto. Avevano bisogno di consigli per affrontare questa sfida, che interrompeva anche la tradizionale trasmissione di conoscenze madre-figlia riguardo a tante esperienze domestiche. Così, all’inizio il giornale era un ibrido. Da una parte ti diceva come fare il curriculum perfetto, dall’altra come svolgere al meglio le faccende di casa. Fu subito un successo con un boom di vendite, un milione e 200mila copie, a dimostrazione che rispondeva a domande reali.
E oggi?
Con il passare del tempo quello specifico bisogno è cambiato completamente perché, per le donne, è diventato più normale lavorare, anche se parliamo sempre del 48% delle italiane. Ma, soprattutto, è stato l’avvento del web a sconvolgere tutto. Perché in rete quando si cerca un’informazione la si trova con facilità e velocemente. Donna Moderna l’ha capito, è sul web da 15 anni e oggi vanta 13 milioni di utenti unici al mese, una potenza!
Online si trova la risposta a ogni domanda, certo, bisogna però capire se le risposte sono davvero giuste…
Quello che facevamo noi sulla carta, con l’autorevolezza conquistata, sul web diventava di una forza pazzesca, perché a domanda, rispondevi. Puntualmente.
E sulla carta?
Ci siamo riposizionati in un modo completamente diverso: la donna oggi non ha bisogno di sapere come fare le cose, ma di sapere che certe cose le può fare. L’abbiamo spinta ad allargare i suoi orizzonti, e a guardare oltre: «Non soltanto puoi lavorare, ma puoi anche ambire a diventare capo della tua azienda».
Obiettivo ambizioso. Con quali strumenti?
In due modi. Il primo, attraverso gli esempi: apriamo sempre ogni numero con la storia di una donna normalissima che ha raggiunto risultati particolarmente interessanti. Quella, per noi, è la donna moderna della settimana. Il secondo è portare le nostre lettrici a fare le cose con noi. Abbiamo costruito un sistema, che non è più carta, articolato sul territorio con eventi e incontri.
Il giornale evolve, si trasforma in un ecosistema.
Mettiamo insieme le community delle nostre lettrici, le facciamo conoscere tra di loro, ma io, Donna Moderna, sono insieme a loro. Perché, come giornale, non ho più soltanto il compito di informare, che pure resta un obiettivo fondamentale. Nel nostro caso, visto che siamo un femminile e le donne vivono un momento particolare, dobbiamo avere un ruolo nel cambiamento sociale in atto, compiendo azioni concrete.
Puoi farci qualche esempio?
Abbiamo lanciato un movimento che si chiama Donne come noi ed è legato proprio alle storie che aprono, da almeno 15 anni, ogni nostro numero. Un centinaio di quelle storie le abbiamo raccolte, con lo stesso titolo, in un libro edito lo scorso anno da Sperling & Kupfer, dal quale abbiamo poi tratto un bellissimo spettacolo teatrale, scritto da Emanuela Giordano e Giulia Minoli, con Tosca come protagonista. Siamo andati in scena a Milano, Roma, Torino, riempiendo i teatri e raggiungendo migliaia di italiani. Teatri che non vogliamo puzzino di naftalina, ma tornino a essere piazze dove la gente s’incontra e, condividendo delle emozioni, cominci ad avere degli scambi. Un teatro sociale, con spettacoli che, se possibile, offriamo gratis o a prezzi pressoché simbolici, per ampliare il più possibile la platea.
Succede tutto a teatro?
No, abbiamo creato una versione breve dello spettacolo da portare nelle aziende, negli auditorium, nelle scuole. L’effetto sul pubblico è pazzesco, perché esci dallo spettacolo estremamente motivato. Noi vi associamo un momento di formazione, che utilizza sempre il linguaggio del teatro, l’improvvisazione, e serve a trasmettere alle donne alcuni strumenti importanti come la capacità di fare rete, che storicamente nessuno ci ha insegnato, e la capacità di credere in sé stesse, l’autostima. Il laboratorio teatrale ti porta a ragionare su come mettere in atto tutto ciò nella tua vita e quindi ottenere un risultato di empowerment.
Perché con le aziende?
Perché le aziende sono i luoghi dove avviene il vero cambiamento, dove si anticipano spesso le normative e legislazioni nazionali. Ci rivolgiamo anche alle amministrazioni pubbliche, che sono però generalmente meno reattive.
Come vedi evolversi il ruolo della donna e cosa manca per una definitiva emancipazione?
Intanto sono abbastanza ottimista, riconosco la progressiva conquista di maggior spazio da parte delle donne, favorito con decisione dall’introduzione delle quote rosa. Certo, i dati assoluti sono ancora modesti, ma il trend è positivo. A questo punto c’è bisogno di un salto di qualità nelle politiche per la donna che rifugga dall’idea della wonder woman che deve conciliare tutto. E lo dice una che di questo mito è stata un po’ testimonial.
Perché quand’eri incinta sei stata promossa direttrice, e avevi già una figlia…
Ecco, lì ho sottolineato la lungimiranza di un uomo che mi ha offerto quel ruolo nonostante io stessa considerassi la mia situazione un ostacolo. Ma la vera chiave di volta sta nel fatto che un uomo possa e debba assumersi la responsabilità totalmente paritaria dell’atto di generare i figli. Se viene divisa in due, entrambi possiamo permetterci un certo tipo di lavoro. Invece, sembra che le politiche sociali debbano rendere le donne delle wonder woman, capaci di conciliare vita privata, maternità, famiglia e lavoro. Anche lo smart working è una gabbia, una falsa soluzione.
Invece?
Occorrono politiche che aiutino l’uomo ad acquisire consapevolezza del suo ruolo, a prendere un super congedo di paternità e maggiori responsabilità nella conduzione quotidiana della famiglia, senza che ciò gli procuri problemi in azienda. Ed è soltanto questo che permetterà alle donne di fare i successivi passi, non il fatto di ammazzarci di lavoro o di sentirci in colpa se non riusciamo a fare tutto. Sentimento che non appartiene alla narrazione del maschio.
Empowerment ed emancipazione passano anche dallo sport. Ho letto che create community con la corsa, con le runner.
Sì, un’altra iniziativa di successo che si chiama Corri con noi: abbiamo gruppi di corsa in nove città italiane, da Torino a Palermo, alcuni con oltre 200 iscritti, lì dove gruppi sportivi consolidati riunivano 50 donne. Siamo riusciti a intercettare persone che non si sentivano a proprio agio per andare a correre da sole o con altri gruppi. Off riamo un programma di miglioramento personalizzato, un coach anche per chi cam- mina soltanto e un obiettivo finale, una gara in Marocco. Le lettere che ricevo ogni settimana da queste donne sono in- credibili, tutte raccontano il timore iniziale, la soddisfazione per i risultati, la gioia per l’attesa. Io rispondo a tutte.
Questo dialogo con le tue lettrici credo sia fondamentale. Un grande impegno e una bella fatica, ma ben spesi.
Abbiamo anche una newsletter giornaliera, con 130mila iscritte, si chiama Un caffè con Donna Moderna. La inviamo ogni mattina alle 7 selezionando le tre notizie più interessanti di politica, economia, attualità. Cerchiamo di rendere chiaro quel che è complesso, ciò che i quotidiani danno per scontato sia compreso dai loro lettori. Trattiamo soprattutto questioni economiche, perché la donna è il motore decisionale dell’economia familiare.
Insomma, un giornalismo con una funzione quasi didascalica. Utilissimo in questa epoca di esperti improvvisati o interessati.
Posso farti un altro esempio. In occasione delle elezioni europee, quando ci siamo resi conto che il dibattito in Italia non toccava i punti salienti, abbiamo dedicato otto puntate, due pagine a settimana per due mesi, a uno speciale Noi e l’Europa interamente scritto da donne. Abbiamo spiegato prima quali idee dell’Europa erano in ballo, poi cosa aveva fatto l’Europa per le donne e per l’economia italiana. Abbia- mo cercato di smontare alcune false credenze e di riportare al centro dell’attenzione il vero tema in gioco.
C’è sempre il timore nel lettore che i media abbiano altri fini, il giornalismo sia schierato, parte integrante di quell’establishment a cui si addebitano un po’ tutti i mali. Da qui disaffezione e ricerca di verità altrove…
Noi abbiamo un’altra storia, non siamo accomunati a quel tipo di informazione, i nostri lettori si fidano di noi. Certo, godendo di quella fiducia, potrei cavalcare il pensiero della maggior parte di loro, oppure evitare di affrontare argomenti scomodi o divisivi, per non perderne qualcuno. È un rischio che abbiamo gestito nell’affrontare temi delicati come quel-lo dell’immigrazione e della sicurezza.
E come?
Non presentandoci come giornale di élite, che si pone su un piedistallo e giudica. Il nostro atteggiamento è: «Ti ascolto lettore e cerco di capire da dove nasce il senso di insicurezza che tu provi».
E da dove nasce?
Da una politica che non ha mai gestito bene la questione dei migranti e non ha fatto mai abbastanza perché non fossero percepiti come una minaccia. La sensazione di insicurezza non è mai stata presa sul serio. Sebbene sia reale e diffusa, nonostante le statistiche dicano che siamo un Paese sicuro.
Quindi?
Le nostre lettrici, quando le mie parole contraddicono le loro convinzioni, si arrabbiano tantissimo (la sua espressione è ben più colorita, ndr), ci scrivono, ma questo non le fa allontanare dal giornale. Noi non facciamo marcia indietro, però cerchiamo di capire, ci mettiamo in ascolto e dialoghiamo con loro. Altre ci ringraziano perché continuiamo a portare avanti determinate idee anche in un periodo in cui non sono molto popolari.
In queste pagine interpello spesso i miei interlocutori sul futuro dei media cartacei. Siamo molto interessati all’argomento tanto che, qualche tempo fa, abbiamo commissionato una ricerca, a uso interno. È emerso che molti lettori sentono il bisogno di uscire dal sovraccarico di stimoli prodotto dal mondo social e dal web e cominciano a non fi darsi più di niente. Pare che nella carta i lettori cerchino un angolo di quiete e autorevolezza. È un’occasione da cogliere offrendo un’informazione che crei fiducia. Perché accada occorre che, se e quando hai sbagliato, tu lo ammetta, chiedendo scusa al lettore. Cosa che nessun giornale in Italia fa. È un rapporto di fiducia che per noi è stato facile conquistare, perché abbiamo una storia diversa dai quotidiani, non siamo assoggettati a nulla.
Per avvicinare il lettore sono fondamentali i contenuti, ma anche il modo di presentarli.
Un po’ di dinamismo è necessario. Noi in genere ogni due anni cambiamo la rivista, la sottoponiamo a un accurato restyling. Ma è anche una questione di sostanza, perché ogni due anni si delinea un mondo dell’informazione diverso, si aprono nuove opportunità e canali. Proprio nelle settimane scorse abbiamo chiuso un accordo con Storytel e entriamo nel mondo dei podcast. Insomma, se la carta sembra possa avere margini di riscossa, la rivoluzione digitale non può certo essere arrestata.
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