Foto Alberto Giachino
Medialogando inaugura il 2020 con Maurizio Molinari, che proprio il 1° gennaio ha festeggiato il suo quarto anno alla guida de La Stampa di Torino. Sul quotidiano piemontese, fondato più di un secolo e mezzo fa, Molinari scrive dal 1997. Per circa 15 anni ne è stato corrispondente dall’estero, 13 da New York. Saggista, acuto commentatore politico, il suo attento sguardo sul panorama internazionale ne ha fatto l’apprezzato ospite di molti talk show televisivi. Molinari ci paleserà, nel corso della nostra conversazione, un inaspettato ottimismo sulle sorti del giornalismo e dei quotidiani. Un ottimismo ragionato e ragionevole che assumiamo come benaugurale, all’alba del nuovo decennio e di fronte alle innovazioni che si porterà con sé, non solo nel mondo dei media.
Che significa essere giornalisti oggi?
Significa coniugare la valorizzazione del vecchio mestiere con la sua declinazione su più piattaforme tecnologiche.
E come si coniuga tradizione e innovazione?
Facendo crescere all’interno della redazione la consapevolezza del valore delle notizie, la necessità di una loro netta separazione dalle opinioni, la loro ricerca con quella ingenuità, capacità di sorprendere, studio, approfondimento e, soprattutto, umiltà di ascoltare, che sono da sempre gli ingredienti di questo mestiere. Il giornalismo non cambia e i suoi elementi di forza rimangono gli stessi, cambia la declinazione sulle varie piattaforme. Se fino a pochi anni fa la principale e quasi esclusiva era la carta, oggi abbiamo la scrittura digitale, i video digitali, le radio digitali, i social network, la realtà aumentata e uno scenario destinato ad arricchirsi ancora nell’arco di pochi anni.
Tutto questo richiede, quindi, specifiche competenze.
Nascono infatti nuove professionalità, capaci di trovare il linguaggio e il modo adeguato per raggiungere mercati e tipologie di pubblico molto diversi. Con un’ulteriore novità: nelle redazioni l’interazione non sarà più soltanto quella tradizionale tra giornalisti e tipografi, che comunque resterà, perché i giornali di carta continueranno a uscire, ma con altri compagni di banco come i graphic designer, i video maker, i data scientist.
Sei convinto che i giornali di carta resisteranno? Lo scorso agosto il NYT ha dedicato un’interessante inchiesta a questo tema. Tutti i dati parlano di un continuo e diffuso declino di vendite. Da cosa deriva questo tuo ottimismo?
L’esperienza del New York Times come del Guardian ci dicono che il modello cartaceo sta in piedi quando le copie vendute equivalgono agli abbonamenti digitali, meglio ancora se il loro numero supera quello delle copie vendute in carta. Semmai il vero interrogativo sulla scomparsa della carta riguarda quei giornali che non riusciranno, in tempo utile, a creare questo sano equilibrio. Ecco, quella scadenza può essere feroce, e ravvicinata. Tre, cinque anni. O si riesce, in tempo celere, a trovare gli abbonati digitali, o si chiude.
Un processo delicato, che pretende misure adeguate e pochi tentennamenti.
Sì, ma lo dobbiamo gestire con ottimismo, con adeguati investimenti, con la consapevolezza che la trasformazione creerà molteplici professionalità, cambierà dall’interno le redazioni, ma conserverà, alla carta, il ruolo di prodotto privilegiato per il rafforzamento e consolidamento del valore del brand.
Consentimi di dire che il panorama non promette bene.
Perché siamo soltanto all’inizio di questo processo, e non si possono fare considerazioni finali su un processo appena iniziato. Comunque, se guardiamo alle aree dove sono più diffusi cultura e abitudini verso il digitale e gli acquisti online, come la Scandinavia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, i dati sugli abbonamenti digitali non sono affatto così negativi. E il fenomeno comunque cresce, seppur lentamente, anche altrove, compresa l’Italia.
Non credi che il declino dei media tradizionali, e in particolare dei giornali, sia anche conseguenza di una insofferenza verso l’informazione mainstream, percepita come asservita a interessi di parte? Il che giustifica l’esplosione dell’informazione fai-da-te, sui social…
Tutto questo è l’attuale Far West. Che si spiega perché siamo ancora in una fase nella quale nel web non ci sono le regole, e abbiamo l’informazione gratuita che cannibalizza i contenuti. Stiamo uscendo dall’homo homini lupus e lentamente si iniziano a costruire delle regole.
Quindi anche quel mondo di libertà sconfinata ha necessità di regole, come tanti sostengono. Sebbene su come introdurle il dibattito sia apertissimo e complesso.
Gli abbonamenti digitali servono anche a questo. Quando l’informazione è gratuita e tu non sai chi paga per produrla, si apre la finestra all’interno della quale si sviluppano le fake news. Che non nascono sui giornali con un nome, un cognome, un indirizzo e un editore responsabile, perché se tradisci il lettore il tuo business finisce. Quindi, per garantire la libertà di informazione, i giornali devono puntare sulla qualità, ma i lettori devono accettare di pagare per i contenuti.
Insomma, il digitale è una prateria di opportunità ma anche di insidie, mi sembra che anche di questo parli il tuo ultimo libro, Assedio all’Occidente. Quali le difese?Sono due le misure strategiche da adottare: una verso l’esterno e una interna. Ogni nazione deve difendere il proprio spazio cibernetico così come difende i suoi confini fisici, è una questione di sovranità nazionale. Se non lo fai qualcun altro si insedia e inizia a fare i propri interessi all’interno della tua comunità nazionale. Stati Uniti, Gran Bretagna, Israele, Corea del Sud, Olanda presidiano già efficacemente il proprio spazio cibernetico, in altri Paesi come Francia, Germania, Italia e Spagna questo processo è ancora in corso. Servono poi norme per distinguere i dati che si possono condividere da quelli che vanno protetti. La normativa emanata dal governo italiano, con il Conte Due, è positiva ed è considerata, da molti, all’avanguardia in Europa, perché istituisce nei settori strategici il sistema del Golden Power. Ossia uno strumento che impedisce di rendere pubblici i dati di importanza strategica per la sicurezza.
E la misura interna?
La lotta alle fake news. Che oltre a regole e informazione di qualità richiede un grande senso di responsabilità e di autodisciplina da parte dei giornalisti. Chi scrive per un grande giornale, con una propria eco nel Paese, non può produrre e diffondere propri individuali contenuti che finirebbero, di fatto, per essere identificati con quelli del suo giornale. La libertà di opinione è un valore ma se la eserciti solo a favore di una precisa azienda o di uno specifico partito politico diventa faziosità.
Cos’altro si chiede a un giornalista nell’epoca digitale?
Senz’altro deve essere più flessibile, più rapido, e consapevole che il mercato gli darà un voto, il che lo obbliga a produrre contenuti di qualità.
Ed è apprezzata questa qualità?
Eccome, e i dati sono sorprendenti. Gli articoli digitali che fanno più traffico non sono quelli con le donne nude o con le parolacce, ma quelli di qualità. Perché il pubblico è intelligente. Ho imparato una regola negli Stati Uniti, che i lettori sono più intelligenti di noi, ed è vero. Il pubblico premia la qualità e questo, consentimi, mi permette di essere ancora più ottimista.
La qualità dell’informazione cammina di pari passo anche con le risorse per pagare chi la produce. Quelle provenienti dalla pubblicità sono in costante calo.
Le risorse si recuperano con una nuova idea di pubblicità, con lo sviluppo di una nuova organizzazione del lavoro e sapendo cogliere le potenzialità offerte dalla moltiplicazione delle piattaforme. La raccolta della pubblicità nella realtà digitale non può essere più quella del ‘900, con le vendite porta a porta e i centri media, ma passerà da meccanismi sempre più automatici legati al traffico sviluppato. Insomma, parliamo di una riforma di sistema.
La Stampa come sta vivendo questa riforma? E cos’è di cui vai più orgoglioso in questi quattro anni di tua direzione?
Senz’altro dell’integrazione. Abbiamo fatto due lavori fondamentali, abbiamo integrato le redazioni tra loro, creando dei macro desk. Uno di hard news per cronache, politica, esteri ed economia. Uno di soft news con cultura, spettacoli e società. E infine un macro desk locale con tutte le province e la cronaca di Torino. Questa integrazione ha fatto collaborare colleghi che per molti anni lavoravano fianco a fianco ma faticavano a parlarsi, ciascuno coltivando il proprio giardinetto. E ha aiutato la produzione di contenuti di qualità. Adesso stiamo lentamente replicando questo concetto tra carta e web, chiedendo a ogni giornalista della carta di lavorare anche per il web e viceversa. Questo è il fronte dell’integrazione industriale all’interno de La Stampa.
Necessario per ottimizzare l’utilizzo delle risorse.
Sì, poi c’è un’altra integrazione, più emozionante, della quale ho avuto l’onore di avere la responsabilità a dicembre 2017, che riguarda la GNN (Gedi News Network), ovvero l’integrazione fra La Stampa e i quotidiani locali dell’ex Gruppo Espresso. Tredici giornali locali con i quali abbiamo un’interazione quotidiana. Loro pubblicano i nostri contenuti nazionali, mentre le loro storie confluiscono sul giornale nazionale, che abbiamo aperto più volte con notizie dal Veneto, dall’Emilia, dalla Toscana. Questo dialogo fra La Stampa e i giornali locali è, sinceramente, la cosa più divertente e importante perché ci consente di avere una forte presenza sul territorio e di essere un Gruppo davvero glocal. Dove l’elemento globale che viene dal dna della Stampa si coniuga al forte radicamento locale di quelle testate.
Che cosa resta da fare?
Dobbiamo iniziare a correre verso una più efficace integrazione tra carta e digitale. Ma la parte più avanzata e difficile di questa frontiera sono i social network. Perché qui parliamo di un lavoro completamente diverso da quello giornalistico. Qui devi monitorare cosa avviene, capire di cosa si sta parlando, quali sono i contenuti del tuo sito che possono interagire con la conversazione in corso, postarli, moderare le reazioni. È un altro lavoro che richiede altre qualità e specializzazioni. Tutto questo ti mette a durissima prova, però è emozionante e schiude nuovi orizzonti. Stiamo anche pensando ad accordi con più università per avere in redazione, a partire dalla primavera del 2020, data scientist.
Con quali obiettivi?
Questi scienziati dei dati leggono e interpretano il traffico digitale sui singoli contenuti e ci forniranno informazioni per rispondere meglio alle richieste dei nostri lettori. Oggi ne sappiamo ancora troppo poco. Sappiamo però che la maggioranza sono uomini, le donne sono soltanto il 38%. E che l’età media dei nostri user è di 55 anni. Già questi dati ci consentono di capire che abbiamo una carenza di contenuti capaci di attrarre la loro attenzione. Quindi le prime due sfide sono: più giovani e più donne.
Ma le notizie sono notizie. Forse conta come darle e come dosarle dentro il palinsesto complessivo?
Certo, per esempio il fatto che la maggioranza siano di cronaca nera non attrae il pubblico delle lettrici. Potendo analizzare i dati puntualmente ti scontri con qualcosa senza appello, e a quel punto sei obbligato a ragionare. Scopri, ad esempio, la forza del territorio, con storie che hanno una forza di penetrazione sul digitale enorme. E capisci quanto investire risorse sulle storie locali significhi creare nuovi mercati.
Sei spesso in tv. Ormai un buon giornalista è anche un reclamato opinion leader…
È vero, però attenzione, questo non sostituisce il vecchio mestiere. Non c’è niente da fare, quando hai un reportage di una tua giornalista che da Algeri ti fa ascoltare le donne algerine coinvolte nella sfida tra i liberali e gli estremisti islamici, o hai l’intervista all’astronauta della stazione spaziale internazionale o al cittadino che ha dovuto abbandonare la sua casa per l’esondazione del fiume Tanaro e ti racconta come è cambiata la sua vita… quelli sono pezzi unici, e non ce n’è per nessuno. La notizia continua ad essere imbattibile, insostituibile ed è la ragione grazie alla quale l’informazione di qualità potrà avere ancora successo.
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