Nato sotto il segno dei Gemelli. Forse a fine maggio. In una città che è il centro del mondo, costruita a strati, in pietra di bugnato grigio, marmi bianchi, tetti rossi, case torri a sfiorar le nuvole. All’ombra di una di queste, la Torre del Castagna, l’edificio politico «dentro da la cerchia antica» dove i priori si ritrovavano per deliberare gli affari cittadini contando consensi e preferenze con le castagne. In quel 1265 in cui Firenze è Fiorenza, lacerata dalle lotte di fazioni, ricca e colta, denarosa e viziosa senza avere ancora su di sé il gran cupolone, visibile da ogni dove.

 

Dante Alighieri, battezzato Durante, capisce da subito che per diventare qualcuno avrebbe dovuto avere un nome adeguato. Dante, secco e diretto. E lui vuol diventare qualcuno, così dedito alle arti e alle letterature, innamorato dei libri, prestato alla politica che conta, fino a trovarsi cavaliere. «Sovra 'l bel fiume d'Arno a la gran villa», tra la fitta rete di vicoli medievali, si svolge la prima parte della sua vita, nella zona della parrocchia di San Martino del Vescovo, oggi via stretta e dritta a lui intitolata dove pullulano bar, ristoranti e musei e dove, invece, nel XII secolo, sorgevano una chiesetta e la casa paterna oggi perdute.

 

Come ogni fiorentino di allora, le forme ottagonali del Battistero lo accolgono quando «fu cristiano», si legge nel Paradiso, e attraverso i mosaici, ancora oggi magnificenza dell’arte, si avvicina alle narrazioni bibliche: gerarchie angeliche, gironi, Serafini, schiere di beati o dannati azzannati da Lucifero. Probabilmente qualche scintilla che ha animato il divino poema è partita proprio da quella visione musiva.

In un fazzoletto di città si districano le giornate del giovane figlio di Alighiero di Bellincione, usuraio, un mestiere che fa un po’ vergognare il colto rampollo, frequentatore dei salotti buoni. Non è ricco Dante ma benestante quanto basta per non dover lavorare, dedicandosi solo agli studi e alla vita della pòlis, iscritto alle Arti dei medici e degli speziali.

 

Nel quartiere di famiglia frequenta la Badia fiorentina, dal campanile appuntito come un siluro con i rintocchi che fanno da orologio alle giornate dei bottegai. Va a messa proprio lì dove, si narra, abbia incrociato ancora bambino quella Beatrice Portinari che gli sconvolse la vita solo a guardarla. Amata, tanto e da lontano, ispirazione per i suoi tuffi nei meandri della scrittura e visione paradisiaca. In questa abbazia incastrata nel centro storico su via del Proconsolo, l’antica arteria romana, Giovanni Boccaccio in persona, mezzo secolo dopo la morte del poeta, si cimenta nelle famose letture della Divina Commedia.

La Badia fiorentina

Prestigiose le cariche che Dante politico riesce a ricoprire, da fedele militante del partito dei guelfi bianchi, sostenitori moderati dell’autonomia comunale, senza mai smettere di scrivere la Vita Nova e «lagrimare» per la scomparsa prematura di Beatrice. È membro del Consiglio del popolo, in quello dei Cento, ambasciatore della città gigliata.

 

Si trova a Roma nel 1302, in viaggio istituzionale, quando viene pronunciato il bando con la condanna d’esilio per lui e un gran numero di influenti esponenti del suo partito. Da quel momento si sommano i paesi, i castelli, le corti di signori, i luoghi resi noti dal suo passaggio, le grandi città dove soggiorna e racconta in un lungo peregrinare da espatriato. Sempre in contatto con drappelli di personaggi illustri e senza nome, vagando per mezza Italia, da ribelle, profugo e poeta, tra terre sconosciute e famiglie altrui. Un viaggio senza fine narrato, in terzine e con insuperabile maestria, con la penna a tirare di fioretto, scendendo tra le bolge infernali, scalando le cornici del Purgatorio, fino in alto tra i beati dell’Empireo.

 

La Divina Commedia, il cammino universale, senza tempo e metaforico della condizione umana, è colma del tragitto fisico di Dante. C’è un paesaggio reale, oltre a quello ultraterreno che spunta tra i versi del Poema. È «del bel paese là dove 'l sì suona», l’amata Italia, che fa da quinta Commedia e raccontato in maniera realistica, sia nei luoghi visitati che in quelli immaginati.

 

Nelle prime tappe è ancora vicino a Firenze, sulle montagne tra il Mugello e il Casentino, a San Godenzo in uno dei castelli dei conti Guidi di cui oggi ci sono solo i resti. Da Dicomano, sulla strada verso Forlì quasi al confine con la Romagna, dove la vegetazione diventa folta e rigogliosa, ci si imbatte nell’abbazia in pietra, incastonata nel paese e rimasta intatta, uno dei maggiori esempi di architettura romanica toscana.

 

Qui i guelfi bianchi esuli, tra cui Dante, si riunirono in convegno con i ghibellini che volevano rientrare a Firenze. Verso l’Appennino, nel Parco nazionale delle Foreste Casentinesi, la provinciale porta a San Benedetto in Alpe (FC) costeggiando il corso del fiume Montone e deviando in una serie di sentieri che conducono dove l’affluente Acquacheta, tra sbalzi e dislivelli, salta nella cascata che porta il suo nome. Dante la cita nell’Inferno paragonandola al Flegetonte e la incontra dal vivo quando attraversa questo pezzo di Paese in bilico tra la Toscana e la Romagna, diretto verso la Forlì di Scarpetta Ordelaffi.

Castello di Poppi (AR)

Nella Valle dell’Arno, «un fiumicel che nasce in Falterona», con i suoi molti ruscelli, i colli verdeggianti e freschi descritti nel Canto delle Malebolge, si ferma qualche anno. A Poppi (AR), in un castello del ’200 tra i meglio conservati in Toscana e tutt’ora visitabile, viene accolto da Guido da Battifolle e dalla moglie Gherardesca, figlia del conte Ugolino, quello che «la bocca sollevò dal fiero pasto». A lei fa da segretario, scrivendo per suo conto lettere indirizzate a regine e imperatori. Parole e conoscenza in cambio di ospitalità e una scrittura che non si ferma mai, come lui. Suggestioni, intrecci biografici e tradizione vogliono che il penoso Canto XXXIII dell’[c]Inferno[/c] sia stato concepito proprio qui.

 

Dalle stanze del castello la vista si perde sulla vallata casentinese, dove a nord si apre la Piana di Campaldino, prati sterminati e pianeggianti rimasti tali, l’ideale per una battaglia tra cavalieri. L’11 giugno 1289 esattamente lì (oggi una colonna marmorea lo ricorda) si scontrano i guelfi fiorentini e i ghibellini d’Arezzo. Dante, poco più che ventenne, posa la penna e indossa le armi del fenditore: «Corridor vidi per la terra vostra, o Aretini». I buoni rapporti con il casato dei Guidi gli permettono di abitare a Pratovecchio Stia (AR) e nei dintorni, dove ci sono altri manieri di proprietà dei conti. Fa tappa anche a Romena, nel castello lambito dalla Fonte Branda (evocata nella bolgia dei falsari), di cui sono rimasti in piedi la torre delle prigioni, una delle quattro porte e il mastio. E in quello del vicino borgo di Porciano, oggi dimora storica e museo.

La Verna (AR)

Nel Purgatorio, invece, Dante cita Camaldoli (AR) e il fiume Archiano «che sovra l’Ermo nasce in Appennino», raggiungibili oltrepassando il ponte di Poppi e salendo fino a 800 metri d’altezza, tra una fitta macchia di faggeti d’alto fusto. Nei suoi spostamenti, l’Alighieri ha spesso cercato bolle d’atmosfera contemplativa e mistica in cui praticare quella fede granitica che nell’ultima Cantica gli permette di trasformarsi in pellegrino tra luoghi ultraterreni, riconoscere profili divini e soprattutto rincontrare Beatrice.

 

Sempre nell’aretino La Verna, il convento francescano arroccato sulla montagna e visibile da tutto il Casentino e dall’alta Val Tiberina, entra in Paradiso come il luogo dove San Francesco ricevette le stimmate: «Nel crudo sasso intra Tevero e Arno da Cristo prese l’ultimo sigillo». Tutt’oggi è meta assidua di pellegrinaggio religioso e camminatori.

 

Segue...