In apertura, il frantoio ipogeo di Presicce © Roberto Micoccio

Cunicoli scavati nella roccia, grandi macine che giravano senza sosta trainate da un mulo bendato accanto a vasche in pietra per la molitura delle olive. I frantoi ipogei - trappeti nell’Italia meridionale - erano le miniere dove l’olio, oro verde del Salento, veniva prodotto e conservato. Vere città sotterranee attestate già in età messapica e poi romana e bizantina, queste spettacolari strutture hanno sostenuto per secoli l’economia della zona, rimanendo attive fino alle soglie dell’età contemporanea quando, verso la fine dell’800, vennero dichiarate insalubri e quindi abbandonate in favore dei frantoi costruiti in superficie.

Ulivi nella campagna salentina

Ulivi nella campagna salentina © maelena/AdobeStock

I trappeti sotterranei erano meno costosi, senza contare che la roccia in cui venivano ricavati, la calcarenite leccese, con le sue proprietà isolanti naturali consentiva di mantenere la temperatura costante, tra i 19 e i 20 gradi, ideale per poter separare l’acqua dall’olio. In buona parte diventati musei diffusi - patrimonio culturale dell’intero Paese e luoghi ricercati dal turismo rurale - sono circa 700 i frantoi ipogei che si conservano ancora oggi nelle tante masserie disseminate nella campagna leccese, tra Martano, Carpignano, Giurdignano, Uggiano e ancora a Cutrofiano, Matino, Merine e Zollino.

L’olio attraverso il mare: una storia millenaria. Da sempre il pregiato prodotto - apprezzato già dai popoli semitici come gli ebrei e gli antichi egizi – ha raggiunto infatti i mercati più lontani proprio attraverso la navigazione. E in Salento, terra stretta tra Adriatico e Ionio, questo legame tra navi e olio non può che risultare inscindibile. Era infatti il nachiro (dal greco naùkleros, padrone della nave), il nocchiero che nei mesi caldi governava le imbarcazioni, a comandare da ottobre a febbraio i trappitari al lavoro nei frantoi. Tanto che la squadra dei frantoiani, manovali addetti alle operazioni di molitura e spremitura, era denominata ciurma, mentre le olive venivano scaricate nelle sciave, vere e proprie stive, attraverso delle fessure che univano il piano stradale ai frantoi ipogei.

Frantoio ipogeo di Presicce

Frantoio ipogeo di Presicce © Roberto Micoccio

Gallipoli, Otranto e Brindisi erano i porti principali di imbarco. Una traccia di queste antiche rotte marittime sopravvive ancora nelle strade carraie, arterie centenarie scavate nella roccia dal passaggio continuo di carri che trasportavano olio, tra querce e pruni selvatici. Una tra le vie meglio conservate, diretta verso la costa ionica, si trova all’uscita di Maglie: è la Via te l’oju, meta di amanti del cicloturismo e del trekking. E se dalla prima spremitura si otteneva olio da tavola, dalla seconda usciva invece l’olio lampante, da utilizzare come combustibile per l’illuminazione e per la fabbricazione dei saponi, molto richiesto in tutto il Mediterraneo, fino ai mercati di Costantinopoli.

Nel basso Salento, tra Gallipoli e Leuca, la barocca Presicce viveva del lampante prodotto nei suoi 23 frantoi ipogei. Ricca di palazzi gentilizi, chiese e conventi - come quello Carmelitano di San Giovanni Battista - Presicce è il comune del Salento con il maggior numero di trappeti a grotta: sotto i vicoli e la centrale piazza del Popolo si sviluppa un’area di circa 1.200 m².

Frantoio ipogeo a Sternatia (Lecce)

Frantoio ipogeo a Sternatia (Lecce) © Sergio Limongelli

Risale al XVI secolo il frantoio ipogeo Caffa a Vernole, una testimonianza eccezionale di archeologia della produzione poco distante dalla fortificata Acaya e dalla riserva naturale Le Cesine. Attivo fino ai primi del ‘900, il trappeto serba ancora intatti i torchi, le macine e i piccoli canali che conducevano l’olio nelle cisterne di conservazione.

Il frantoio di Palazzo Granafei a Sternatia, nei pressi di Porta Filia, è rimasto l’unico visitabile di una originaria rete costituita da 19 impianti collegati tra loro, quasi una città segreta attrezzata perché vi si potesse svolgere la vita per diversi mesi durante i lavori di molitura.

Macina in pietra del frantoio semi ipogeo di Muro Leccese

Macina in pietra del frantoio semi ipogeo di Muro Leccese © Museo diffuso B © Museo diffuso Borgo Terra, Muro Leccese orgo Terra, Muro Leccese

Nel frantoio ipogeo di largo Immacolata a Calimera pare che il tempo si sia fermato. Dimenticato per anni, è stata la famiglia Rescio, proprietaria dal 1948, a ridargli vita. Unico sopravvissuto dei 13 che si contavano nel paese durante il XVIII secolo - un altro trappeto, in via Costantinopoli, è stato parzialmente recuperato e ospita oggi il suggestivo ristorante La Bodeguita - il frantoio si caratterizza per l’immagine di un sole, simbolo dello stemma civico di Calimera, graffito nella pietra sopra una sciava. Raccontano gli anziani del paese che altri segni incisi sulle pareti, come le croci, rappresentavano il numero dei giri compiuti dalle macine, perché buona parte dei trappitari non sapeva scrivere.

Muro Leccese, con il suo frantoio semi ipogeo, restituisce una testimonianza storica straordinaria. Costruito nel 1602 per volere della famiglia dei Protonobilissimo, e parte integrante di una rete di trappeti ipogei diffusa in tutto il territorio del comune, il frantoio è costituito da un grande ambiente coperto convolta a botte, dove sono ancora visibili le basi di calcare per i torchi a due viti alla calabrese - con cui si otteneva olio lampante - e l’alloggiamento del grande torchio a una vite alla genovese per ricavare olio da tavola.

Frantoio semi ipogeo di Muro Leccese, particolare del graffito

Frantoio semi ipogeo di Muro Leccese, particolare del graffito © Museo diffuso Borgo Terra, Muro Leccese

Ma la scoperta più sensazionale è legata a un graffito individuato lungo la parete occidentale del frantoio, raffigurante una città fortificata circondata da navi da guerra con vele latine sormontate da croci. Studiato da Paul Arthur, ordinario di Archeologia medievale all’Università del Salento e ideatore dello splendido Museo di Borgo Terra a Muro Leccese, raffigurerebbe la battaglia di Lepanto (1571). A realizzarla, forse, un anonimo nachiro che, testimone del conflitto, ne avrebbe dato una vivida rappresentazione a 30 anni dallo svolgimento dei fatti.

Articolo tratto da La Freccia

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