In cover, Tarquinia (VT) © Mi.Ti./AdobeStock
Questo mese voglio proporvi un viaggio tra mare, dolci colline e campagna. Destinazione la Maremma laziale e la Terra degli Etruschi, protagonista Tarquinia (VT), importante sito archeologico riconosciuto dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità, che custodisce molti segreti ma uno, in particolare, che pochi conoscono.
Tarquinia è un angolo del nostro Paese, carico di magia e fascino, che richiama viaggiatori da secoli. Oltre alla necropoli con le sue emozionanti tombe dipinte, il Museo archeologico nazionale tra i più importanti al mondo per il periodo etrusco, basti ricordare i celebri Cavalli alati rinvenuti sull’Ara della regina, sul pianoro della Civita, il quattrocentesco ed elegante Palazzo Vitelleschi che ospita il Museo, l’antica Cattedrale dedicata a Santa Maria in Castello iniziata nel 1121 e ultimata nel 1208, uno dei simboli della città, le sue Torri, la Riserva naturale delle Saline.
I Cavalli alati rinvenuti sull’Ara della regina, Tarquinia (VT) © Società tarquiniense d'arte e storia
Per i più curiosi, segnalo il dialetto locale legato a una eredità linguistica originata dalla dominazione francese che ancora oggi si può cogliere in alcune espressioni dove il plurale maschile diventa femminile generando, in qualche caso, veri e propri equivoci (i fuochi-le foche; i tetti-le tette…). Ma vi è anche un segreto gelosamente custodito dalla benemerita Società tarquiniense di arte e storia (Stas), nel centro storico della città. Nel suo archivio sono conservati due preziosi frammenti del velo con spille d’oro appartenute a Madame Letizia, madre dell’imperatore Napoleone Bonaparte.
La storia comincia dopo la sconfitta di Waterloo, quando Madame Letizia si ritirò a Roma, a Palazzo Rinuccini, oggi Bonaparte, dove si spense nel febbraio del 1836. Spaventato da possibili moti bonapartisti e giacobini, il governo pontificio, sotto la pressione degli ambasciatori d’Austria e di Francia, le negò una degna sepoltura a Roma. Il feretro della madre dell’Imperatore venne frettolosamente trasportato a Tarquinia (allora Corneto) per volontà del cardinale Joseph Fesch, fratello della defunta, che lo volle tumulare nel convento cittadino delle Monache Passioniste.
Il velo di Letizia Bonaparte © Società tarquiniense d'arte e storia
Dopo tre anni, anche il cardinale volle essere sepolto lì, vicino alla sorella. I tempi erano però mutati. A Parigi non c’era più un re, ma un nuovo imperatore, Napoleone III, nipote del famoso còrso e dunque pronipote di Letizia, che desiderava una degna e francese sepoltura per la sua cara nonna. Su spinta del governo francese, quindi, a Tarquinia giunse una delegazione proveniente dalla Corsica per riconoscere e prelevare il corpo di Donna Letizia. Cosa resta di tutta questa complessa storia nella città lazione? Una lapide in ricordo del tumulo e, soprattutto, i due delicatissimi frammenti del velo di Donna Letizia.
La vicenda ci ha calato nella magica atmosfera del borgo, che merita di essere visitato. E una volta appreso il suo segreto, si può procedere ad assaporarne la tradizione a tavola. Le influenze francesi, infatti, si intersecano anche con la cultura culinaria del luogo come nel piatto mirandot o mirandò (vedi ricetta nel box). Ma in tutti i ristoranti della zona emerge prepotentemente soprattutto la qualità delle materie prime, che provengono sia dal Mar Tirreno sia dalla florida attività agro-pastorale della zona. I piatti principali sono a base di carne o di pesce: la trippa, le lumache, i lombrichelli, la pasta straccia o gli gnocchi al ferro. E la tradizione contadina spicca nell’ampia varietà dei sapori che si ritrovano in zuppe e minestre.
Porta di Castello e il Torrione detto di Matilde di Canossa, Tarquinia (VT) © Sandra Jacopucci
Poi, ovviamente, qui si può degustare anche la coda alla vaccinara – piatto romano nato storicamente nel quartiere di Testaccio, dove abitavano i Vaccinari – o l'abbacchio alla cacciatora, un secondo saporito a base di carne d'agnello. Altre due prelibatezze da provare sono le fregnacce reatine, pasta fresca fatta in casa condita con sugo di carne, e il garofalato, lardo di guanciale rosolato.
Il tutto va accompagnato da un buon bicchiere di vino prodotto in queste zone. Ce n’è per tutti i gusti: dal Trebbiano alla Malvasia, dal Sangiovese al Montepulciano e al Cesanese, passando per lo Chardonnay, il Pinot bianco, il Petit Verdot, il Vermentino, il Merlot, il Syrah. Infine, la terra dona anche una buona produzione di vegetali, come pomodori, asparagi, finocchi, aglio e, non ultimo, il carciofo romanesco.
Articolo tratto da La Freccia
di Sandra Jacopucci
Le influenze della dominazione francese nella Tuscia viterbese si riflettono anche nella cultura gastronomica. Un piatto di origine francese tipico di Tarquinia è il mirandot o mirandò, che nacque come pietanza di recupero della carne avanzata do pola bollitura del brodo, insaporita con abbondante cipolla dorata lasciata appassire in olio evo, pomodorini a grappolo, spesso conservati appesi, e ulteriormente arricchita con il brodo stesso fino a completa cottura. Per questa preparazione si utilizza ancora, preferibilmente, la carne di vacche maremmane, già allevate ai tempi degli etruschi e particolarmente adatta a lunghe cotture. A Roma, una tradizione simile è lo spezzatino alla romana, il picchiapò, mentre in altre aree geografiche limitrofe al Lazio, come la Toscana, prende il nome di francesina.
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