In apertura, una veduta del centro storico di Bologna © Roman Babakin/Adobestock
Eccomi qui, seduto a un tavolo singolo nel giardino del ristorante Biagi. Il cielo di Bologna si è agitato per tutto il pomeriggio, un po’ come la gente che si muoveva nel quartiere Saragozza, quello con la più alta densità di abitanti, immersa in una bella varietà di attività commerciali. Nella strada omonima, appena superata la porta, si accede a questo locale storico dove mi ha accolto il proprietario, Fabio Biagi.
Piazza Duomo, Bologna © GoneWithTheWind/AdobeStock
Mi racconta dei suoi nonni Adelmo e Maria che a Casalecchio di Reno, subito fuori Bologna, avevano inaugurato un bar con cucina annessa: «Era il 1937, un’estate come questa, con i primi gitanti della domenica che portavano i bambini a fare il bagno nel Reno. Vuoi che non si fermassero a mangiare una tagliatella?». Le storie dell’origine di quel locale sono ricche di sentimenti: la guerra che arriva, il periodo in cui i clienti erano tedeschi, quello in cui gli avventori diventarono gli Alleati. E, ancora, il bombardamento del 16 aprile 1945 e la Liberazione, sette giorni dopo.
Suonerà profano l’accostamento ma dopo una guerra e un’occupazione tanto terribili quelle che riprendono sono le abitudini semplici, come il ritrovarsi attorno a un desco storico per celebrare insieme un rito felice: i sensi che tornano a respirare senza più allarmi né dolori. Insomma, la vita. E la leggenda dei tortellini in brodo di Biagi che ora sono nel mio piatto, secondo la ricetta tramandata proprio dai nonni, racconta come la minima dimensione possa contenere la massima delizia.
È banale tutto ciò? Per nulla. I viaggiatori italiani over ‘60 ricorderanno che, fino agli anni ‘70, parlare di buon cibo era considerato un comportamento borghese, se non quasi reazionario. Si diceva che vi fossero aspirazioni immensamente più importanti. Pregiudizi sciocchi e sorpassati, ormai, perché sul tortellino non è mai tramontato il sole.
Strade del centro storico di Bologna © Ekaterina Belova/Adobestock
Mi spiega Fabio che quella del ristoratore è una figura che col tempo ha cambiato forma: «Prima ricevevo le visite di avventori celebri. Da noi sono passati Fausto Coppi e Gino Bartali, Indro Montanelli e Federico Fellini. Gli imprenditori Raul Gardini e Serafino Ferruzzi sono stati tra i primi clienti. Ma da anfitrioni privilegiati che eravamo, siamo diventati interlocutori attivi della società e della cultura, della politica e delle arti».
Ripenso a quanto mi ha accennato nel viaggio di andata il capotreno del Frecciarossa, un sociologo: se al ritorno fossi passato a Forlimpopoli, tra Forlì e Cesena, avrei addirittura gustato le storiche ricette del nativo Pellegrino Artusi. In via Costa, nella frescura della veranda del b&b La Magnolia, di Franca e Marco, sfoglio le pagine antiche della guida enogastronomica Osteria, firmata dallo scrittore tedesco Hans Barth, che da quasi cento anni narra di locande perdute nel tempo e dei loro miti.
Scopro che al civico 4 di via de’ Foscherari si trovava la porticina d’accesso di una taverna che il popolino aveva ribattezzato “Offesa di Dio” da quando il proprietario, sorpresa la consorte in intimità con un cliente affezionato, l’aveva rimproverata, mentre era abbandonata nella poltrona su cui pendeva un crocefisso, con testuale e cattolica flemma: «Che tu faccia torto a me, cara moglie, passi; ma non hai rimorso dell’offesa di Dio?».
E poi c’era l’Osteria dei bastardini in via Tagliapietre, dove gli studenti fuori sede, senza soldi, si facevano offrire un bicchiere dai tedeschi del vicino consolato per poi scrivere, un po’ alticci, ai genitori: «Carissimi, vi annuncio che sono senza quattrini e ho dovuto chiedere un prestito, con grande rammarico, al signor console».
Paolo Monelli, poi, appartiene a quella scuola di scrittori enogastronomici che annovera anche Gianni Brera, Mario Soldati, Gianni Mura e Luigi Veronelli. Il Ghiottone errante. Viaggio gastronomico attraverso l’Italia, del 1935, fu una delle prime composizioni letterarie di genere, che coniugava stile, gusto e cultura nell’esperienza unica di un gourmet italiano.
Al momento di parlarne, Monelli rompe il vezzo di contrapporre o di associare Bologna la Grassa a Bologna la Dotta e preferisce seguire l’apologia del dottor Balanzone, la maschera godereccia come la sua città: «Qui si tocca l’eccellenza. Qui cuochi francesi e viennesi possono venire a scuola: anche in questo campo Bologna è alma mater studiorum. Qui ogni gusto tradizionale è sbaragliato, ogni ricordo è superato, ogni pietanza è estemporanea creazione del cuoco che troneggia lassù e vuole solo che vi fidiate. Per poi mandarvi in tavola meravigliose composizioni che paiono inventate lì per lì».
Una torta di Missbake
E per dessert? Mi baso sulla storia di un esperimento riuscito. Stefania Vergnani la incontro negli anni ‘90 a un convegno urbinate sulla moda: si stava laureando con una tesi su semiotica e marketing. Oggi sembrano argomenti scontati ma quelle trame di pensiero erano nate allora grazie a Umberto Eco e al corso di laurea in Dams bolognese, dove tutto diventava comunicazione, design e arti applicate.
Stefania, che è una mente velocissima su un bel volto moderno, sa che il versante dolce della sua Bologna è inesplorato, sicché ci si inoltra lei; legge e prova, studia e inventa, assorbe esperimenta. Comprende che quello è un mondo di equilibri delicatissimi ma lei sul fil di zucchero ci sa camminare. Partecipa a un concorso dolciario, Italy International Cake Show, lo passa e vince un master a Le Cordon Bleu London, rinomata e internazionale scuola di cucina nel Regno Unito. Da qui, Stefania rivela un grande talento creativo: reinventa, per esempio, la tradizionale ganache panna e cioccolato trasformandola nella sua Ganeau, una leggera e squisita mousse a base di cioccolato e acqua.
Nel 2015, la scommessa di una pasticceria tutta sua: apre Missbake in via Marsili, nel centro di Bologna, e lancia un laboratorio-vetrina di giochi dolciari, di torte no-copy, brevettate e progettate al momento sulla base degli ingredienti richiesti. Missbake cerca di realizzare desideri, ricercare piaceri, dar forma a ogni sfizio e regalare un tepore e una soavità che soltanto una pasticciera visionaria può offrire agli altri. Per cui, Bologna diventa la Dotta, la Grassa e la Dolce. Ed è ora di chiudere il pasto.
Articolo tratto da La Freccia