In apertura i grani antichi siciliani e, sullo sfondo, il Parco archeologico di Selinunte (TP) © Flavio Leone
Benvenuti a Castelvetrano, la città dei templi, degli ulivi e del grano di Tumminia. Sono questi i tre elementi che danno lustro al comune nel territorio di Trapani, meta obbligatoria per chi trascorre qualche giorno in Sicilia. A Castelvetrano, infatti, ha sede il Parco archeologico di Selinunte, il più esteso d’Europa.
Dopo aver apprezzato l’energia vitale presente nell’acropoli, da dove comincia il mio viaggio, vado a scoprire i ruderi dell’antica città che si trovano nei pressi della foce del Belice, uno dei maggiori bacini della Sicilia meridionale. Finita la passeggiata, la guida mi consiglia di andare a vedere l’opera più famosa del sito, l’Efebo di Selinunte, fiore all’occhiello del Museo civico di Castelvetrano, che raccoglie numerosi reperti archeologici di notevole valore.
La statua, alta circa 85 centimetri, è stata realizzata in bronzo nel periodo che va dal 480 al 460 a.C., durante la fase della colonizzazione greca della Sicilia. Pare che la testa sia di fattura più antica del corpo e questo fatto mi ha suscitato molta curiosità.
Esco dal museo ma avrei voglia di rientrare perché il caldo comincia a farsi sentire e la passeggiata non è più molto piacevole. Anche se in Sicilia c’è il modo migliore del mondo per rinfrescarsi: granita di mandorle e brioche con il tuppo. Assaggio la brioche e noto che è molto diversa dalle altre: è sicuramente artigianale ma ha un sapore più marcato. Chiedo al proprietario informazioni e mi spiega che i grani utilizzati sono di Tumminia e la farina è stata realizzata impiegando antiche macine a pietra naturale di fine ‘800.
Il Parco archeologico di Selinunte, Castelvetrano (TP) © Fotokon/AdobeStock
Si ottiene così un composto dolce e integrale che viene impiegato ancora oggi per la produzione del pane nero di Castelvetrano. Ho sempre sentito parlare di questa specialità e così cerco di capire se posso incontrare un produttore. Il proprietario del bar mi indica un signore e immediatamente vado a presentarmi.
È seduto in piazza, su una panchina sotto un albero che ripara dal sole. Si chiama Filippo Drago ed è un uomo sorridente e affabile. Gli chiedo delle farine e mi risponde: «Vengo da una famiglia di mugnai da tre generazioni che mi ha trasferito questa passione per i grani autoctoni siciliani e per la macinazione così come si faceva un tempo ma in chiave contemporanea».
La sua storia è quella dell’azienda Molini del Ponte. «Il merito del successo è della tradizione mai tramontata di portare a tavola il pane di Castelvetrano. È grazie ad alcune signore che custodivano l’antica ricetta del pane nero che ancora oggi i miei mulini sono attivi e in lavorazione. Altrimenti, li avremmo probabilmente dismessi», continua come un fiume in piena, felice di raccontarsi.
«Da ragazzino l’azienda di famiglia era il mio parco giochi: ci andavo a trascorrere qualche ora nel pomeriggio dopo la scuola perché ero innamorato del lavoro di mio padre. Quando ho raggiunto la maggiore età, è diventato chiaro che quella sarebbe stata la mia strada ma non sapevo ancora cosa mi aspettava. Non avrei mai immaginato che un chicco di grano mi avrebbe portato lontano e in così tanti Paesi nel mondo».
Filippo Drago dell’azienda Molini del Ponte © Flavio Leone
Poi gli chiedo se è stato aiutato da qualcuno: «Il merito sicuramente lo attribuisco a un incontro che non dimenticherò mai con Giulia Gallo che mi informò di alcuni studi sui grani antichi. Cominciai così a seminare in campo alcune varietà custodite in un museo di Caltagirone da lei diretto. La Tumminia l’avevamo sempre coltivata per via del pane nero ma mancavano altre tipologie di cui mi parlava mio nonno quand’ero bambino come il Perciasacchi, chiamato così per la forma allungata che bucava le borse di iuta durante il trasporto. Ma anche il Rossello della Sicilia orientale, da cui a Ragusa ottengono un pane a pasta dura, il Bidi, un altro grano duro biondo, e il Maiorca, l’unico grano tenero antico che oggi maciniamo, con i chicchi albini dai quali si ottiene una farina bianchissima anche se è integrale».
C’è grande competenza e grande passione in Filippo, resto affascinato dal suo mondo e lo immagino a selezionare queste varietà una a una. Lui, nel frattempo, continua: «I grani antichi iniziano a piacere sempre più e molti artigiani li chiedono per ottenere quei pani rustici dal profumo di una volta. Succede non solo in Sicilia ma anche in Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Liguria e Piemonte. Grandi artigiani come Gabriele Bonci e chef come Ciccio Sultano cominciano a divulgare in maniera, oserei dire, piacevolmente ossessiva il mio lavoro».
Poi chiedo a Filippo di raccontarmi un aneddoto. Lui sorride e mi dice: «Un giorno Ciccio Sultano volle conoscere il mio mulino e prendere la ricetta del pane nero di Castelvetrano. Così trascorse una notte con me in un panificio. Quando gli chiesi dove potevamo pranzare lui mi rispose che avrebbe cucinato volentieri per la mia famiglia. Insomma, immagina il sussulto di gioia nell’avere tra i miei fornelli un grande chef: ha reso quella giornata indimenticabile per tutta la mia vita».
Torno al discorso degli impianti molitori che mi aveva affascinato e lui mi racconta un altro incontro fortunato: «Vent’anni fa ho conosciuto Vito Russo, un mugnaio che era a capo di un’azienda importante. È lui che mi ha guidato da allora e continua a farlo».
Il pane nero di Castelvetrano © Battista Asaro/AdobeStock
Negli anni sono state diverse le innovazioni tecniche: «Ho affiancato al sistema tradizionale la macinazione a pietra naturale e un impianto di controllo e selezione di grani di altissima qualità. Nel 2009, ho portato la selezionatrice ottica al servizio della macinazione a pietra e nel 2010 la stazione automatica di controllo mi ha permesso di ottimizzare la macinazione e renderla costante. Infine, quattro anni fa ho climatizzato l’intero impianto molitorio così da poter produrre la farina anche nella stagiona più calda».
Gli chiedo allora se è contento così o se c’è ancora da lavorare. Mi risponde che non si ferma mai: «È il nostro destino e l’essere curioso non aiuta. Negli ultimi due anni ho ottimizzato ulteriormente il lavoro creando una nuova ricezione del grano completamente autonoma, dove il macchinario di pre-pulitura e insilaggio dei chicchi è assistito da un impianto fotovoltaico che rende tutto il nuovo reparto completamente indipendente da energia elettrica esterna». Filippo è figlio orgoglioso della sua terra, lo si capisce subito dal modo in cui gesticola e dall’enfasi che ci mette nel racconto. Gli dico che sono felice di averlo conosciuto e gli faccio i miei complimenti.
Si emoziona, mi guarda e mi dice: «Considero queste scelte quasi obbligate visto che noi lavoriamo soltanto grani coltivati in Sicilia e per me è già un vanto. Oggi il mulino è meta di tante visite di curiosi, amici, clienti e appassionati e questo rende la mia giornata piena di gioia e di impegni. Il prossimo passo è quello di creare un museo dove mostrare tutte le antiche tecniche di semina, raccolta e produzione del grano. E poi voglio riportare in vita un antico mulino della fine del ‘500 acquistato di recente, che tornerà a macinare con finalità didattiche per far capire come un chicco diventa farina».
Anche oggi chi vuole può essere mugnaio per un giorno: «Io invito chi utilizza i miei prodotti a partecipare con me a una giornata di pulitura e macinazione e portar via la farina ottenuta, così da avere un’idea del lavoro, della fatica e dell’impegno che sta dietro a ogni sacchetto. Solo vivendo quei momenti, che per me sono il quotidiano, si può veramente afferrare tutto quello che si fa per ottenere una farina artigianale contemporanea». Non mi resta che salutarlo, consapevole che sarebbe un vero disastro se non ci fossero più gli artigiani.
Articolo tratto da La Freccia