Arrivando a Venezia ogni visitatore ha l’impressione che l’immensa distesa di tesori in pietra d’Istria e riflessi d’acqua gli vengano incontro. È come se tutti coloro che ne hanno calcato i masegni, i macigni in trachite grigia di cui è lastricata la città, avessero instaurato con lei un personale rapporto, intimo e romantico. «È come se tutti, nel bene o nel male, se ne fossero portati via un frammento, quasi nella consapevolezza che questo sogno dell’architettura e del genio dell’artigianato sia una cosa tanto mirabile quanto fragile», racconta Carlo Federico Dall’Omo, architetto dello Iuav di Venezia, istituto universitario completamente dedicato alla progettazione.

 

La Serenissima è un insieme di isole, ponti, calli, case, palazzi, canali, un luogo di riflessi popolato da tante genti – turisti, residenti, studenti, lavoratori, curiosi ed esuli – e da altrettanti gabbiani bianchi e irosi. Ma non è solo questo, è anche un luogo di battaglie che lotta per non spegnersi perché, come raccontava la scrittrice e antropologa statunitense Jane Jacobs, anche le città possono morire. La Laguna sale spesso alla ribalta della cronaca nazionale e internazionale perché la sua fragilità e la sua bellezza fanno sempre notizia. Questo ne ha forse distorto la narrativa, però, relegandola a due estremi: il turismo di massa e il centro che si spopola. A coloro che decidono di perdersi tra le calli – magari gustando gli splendi- di cicchetti, i tipici crostini farciti, accompagnati da uno spritz o da qualche vino locale – è rivolto un invito all’attenzione. A notare le sfumature, le sbiadite tracce e le cicatrici delle lotte di Venezia nei confronti di una narrazione netta che non sempre le appartiene.

 

Alcuni luoghi meglio di altri possono testimoniare questa battaglia per il futuro della città e, per fortuna dell’esploratore, sono anche enclave di sperimentalità creative e culinarie tutte da scoprire. Tra questi, suggerisce Dall’Omo, vale la pena una passeggiata attraverso l’isola della Giudecca, dove sono presenti esperimenti architettonici, artistici e di guerriglia gardening immersi in un tessuto urbano vivace e internazionale. Oltre ai tanti locali che si affacciano sul canale, ci sono alcuni hotspot da non perdere. Tra questi il complesso di Cosma e Damiano, una chiesa sconsacrata riconvertita oltre dieci anni fa attraverso un radicale intervento di restauro da cui sono stati ricavati 12 laboratori artigianali – qui carta, arte, orologi la fanno da padrone – e quattro grandi sale di circa 400 m² che ospitano il Centro teatro di ricerca di Sonia Biacchi, l’Archivio Luigi Nono diretto da Nuria Shoemberg, otto atelier dei borsisti della Fondazione Bevilacqua La Masa e la Sala del camino, sede espositiva della Biennale. Inoltre, sono stati recuperati all’uso collettivo il grande chiostro quattrocentesco e un giardino di circa 4.000 m². 

Sempre sull’isola veneziana opera anche Crea cantieri del contemporaneo, fondato da Pier Paolo Scelsi, che collabora con gli artigiani del luogo in una commistione tra arti visive e saper fare. Un altro spazio da esplorare è via Garibaldi, nel sestiere di Castello, che i veneziani chiamano rio terà, perché nacque in seguito all’interramento di un canale. È l’unica strada di Venezia percorribile a piedi, oltre alle cosiddette calli, ed esprime il suo meglio durante il periodo della Biennale perché qui fioriscono spazi espositivi paralleli alla mostra ufficiale. A questo si affianca un’alchimia tra residenti, vecchi e nuovi, e un’alleanza tra ristoratori che hanno trovato nell’unione la forza di un’offerta unica e differenziata in città.

 

La via è sempre animata: al mattino si passeggia tra i banchi del mercato, alla sera bacari e osterie brulicano di veneziani intenti a ciacolare (chiacchierare) e turisti che cercano di comprendere qualcosa di quegli infervorati dialoghi tra schei e chicchetti. In questi luoghi la resilienza della città si combina con note popolari che mostrano una Venezia più simile a un crogiolo di storie e vite che a un museo. A queste eccezionalità si possono aggiungere anche il Lido, da anni al centro di un progetto di rilancio, Sant’Erasmo, isola a vocazione agricola conosciuta come l’orto di Venezia, la Misericordia, uno spazio fluido dove storia e cultura dialogano con il territorio. Nel processo che punta a reinventare, riprogettare e ridisegnare il domani della città hanno poi un ruolo centrale le università, in primis Ca’ Foscari e lo Iuav.

 

Per rivitalizzare alcuni spazi, quest’ultimo ateneo ha instaurato una serie di rapporti «con eccellenze internazionali della ricerca come il Massachusetts Institute of Technology per i temi delle nuove tecnologie, il Thomas Jefferson University di Philadelphia per la salute pubblica e la Tongji University di Shanghai per l’economia sociale», spiega Dall’Omo. Il futuro di Venezia si basa infatti sulla capacità di fare progetto, di proiettare nello spazio bisogni, esigenze e desideri coinvolgendo all’interno di uno stesso processo molte generazioni. Questo disegno che descrive come dal passato, attraverso il presente, ci si addentri con consapevolezza verso il futuro è ciò che gli urbanisti chiamano masterplan. E un ruolo centrale nel definirlo appartiene proprio a coloro che formano le professionalità e le culture di chi sa progettare.

 

L’esploratore è quindi invitato, perdendosi e deliziandosi dell’offerta che la città gli propone, a sentirsi parte di un progetto. A interagire con un cuore curioso con ristoratori e cittadini, turisti e studenti, cercando di leggere i fili e le trame di questo tessuto in evoluzione.