In apertura Parco archeologico di Sibari (Cosenza) © Massimiliano Marino/AdobeStock

È lunedì 16 settembre 2019, l’una appena passata, e un Frecciargento lascia la stazione di Bolzano per arrivare a Sibari, frazione di Cassano all’Ionio, in provincia di Cosenza. Coprirà 856 chilometri in poco più di nove ore. Non si tratta solo di un risultato importante per il Gruppo FS ma di un evento storico per il trasporto nazionale: per la prima volta le Frecce arrivano nell’alto Ionio cosentino, a servire una popolazione che si aggira sui 220mila abitanti, tagliando la piana di Sibari, tra un litorale di circa 50 chilometri e il massiccio del Pollino.

Tre anni dopo, percorro quella stessa tratta in Frecciarossa, per scendere a Sibari dove mi accoglie un vecchio amico, il cosentino Giancarlo Cauteruccio, tra i più grandi registi del teatro italiano. In passato ha diretto il Magna Grecia teatro festival e oggi sta lavorando alla creazione di un laboratorio di spettacolo permanente nei siti magnogreci. È stato lui a mobilitare artisti calabresi e siciliani affinché realizzassero un’opera sulla spiaggia di Cutro, il 26 marzo, per ricordare il tragico naufragio dei migranti avvenuto a fine febbraio.

Mi introduce alla scoperta del territorio Annagiusi Lufrano, studiosa di lingue e culture greco-latine, che mi racconta della colonna affiorata dal terreno nel 1932 nel corso degli scavi avviati dal grande archeologo Umberto Zanotti Bianco, liberale confinato dal fascismo e nominato, negli anni ‘50, senatore a vita. La Sibari arcaica, mi spiega, non è ancora venuta alla luce per via delle acque di falda che hanno reso impossibile ogni scavo in profondità. Qualche ora più tardi incontro Donatella Novellis, archeologa e archeobotanica: «La conoscenza delle varie tipologie vegetali in antico», mi dice, «aiuta a ricostruire i modelli di vita e di alimentazione delle civiltà di un tempo». Novellis mi mostra il sito con l’amore che userebbe nell’aprire casa propria a un ospite benvenuto. È un incanto l’orizzonte del Pollino verso cui la plateia – la strada, in greco antico – sembra condurre. Col passare dei secoli ogni masso del pavimentum pare aver assunto la propria espressione emotiva. Cauteruccio le definisce “pietre organiche”. Turbato da quella sorta di verità che traspira dalla terra, dinanzi al teatro penso al passaggio dalla tragedia al gioco, dal coro al silenzio del rito. Un’ora più tardi accedo al Museo nazionale archeologico della Sibaritide accompagnato dal suo direttore, Filippo Demma. Ne uscirò con una grande riconoscenza verso un uomo di profonda cultura che, in pochi anni, ha trasformato uno spazio museale in un luogo aperto, dove i sibariti del XXI secolo si specchiano nella Sybaris di un tempo.

Attraverso il percorso museale, la storia del luogo si rivela nei suoi intrecci più interessanti. Poco distante da Sibari sorgeva Thurii, alla cui fondazione, voluta da Pericle, parteciparono anche Protagora, Ippodamo, Empedocle, Erodoto e Sofocle. In età romana fu attestata anche come Copia. La ricostruzione rende palese quanto l’archeologia non rappresenti nulla di estinto: non ci addormenta, ci fa rinascere. Un luogo come Sibari, che in apparenza non esisterebbe su una carta geografica, risorge e si perpetua nella sua triplice stratificazione di civiltà, storia e costume: un incrocio che, nel susseguirsi dei secoli, ha lasciato un’orma indelebile sulla cultura e sulle arti mediterranee. Mi commuove profondamente l’idea di appartenere a una storia che accoglie e protegge chiunque nasca e risieda nel centro del mondo, tra mare e terra, uomini e cose.

Parco archeologico di Sibari

È emozionante pensare che opere abbandonate o distrutte dalle guerre possano tornare alla luce grazie all’impegno e all’amore di coloro che le hanno riesumate, difese e custodite per il loro valore inestimabile. Al tramonto, nella calma della marina, dinanzi al golfo più grande d’Italia, mi risuona una frase dello scrittore argentino Jorge Luis Borges: «Il mare è un antico idioma che non riesco a decifrare». S’è fatta sera e, seduto a un tavolino del bistrot La cantina di Corigliano, poco distante da Sibari, assaporo degli antipasti che toccano ogni sapore possibile. Chiedo quale sia il segreto di questa gioia a Beppe e a Patrizia Zanarotti, proprietari del locale. E lui, con un’inflessione bergamasca, mi risponde: «La semplicità. Guardavo la manualità e i pochi ingredienti che usava mia suocera».

Il pomeriggio seguente ritorno a Cassano all’Ionio, ospite di Gianluca Falbo, assessore al Turismo del Comune, Rosa Maria Alario, guida e operatrice culturale, e Carlo Forace, architetto e storico del territorio, che mi racconta la storia della Basilica minore dedicata alla Natività della Beata Vergine, di origine bizantina e dall'aspetto barocco. La collezione di presepi conservata in questa chiesa è una meraviglia. Cassano colpisce per la varietà della sua bellezza: dalle grotte di Sant’Angelo di origine preistorica (chiuse fino al prossimo autunno per interventi di manutenzione straordinaria) alle terme del VII secolo, al Teatro comunale dove è ricordato con una targa Harry Warren, al secolo Salvatore Guaragna, newyorkese di origine sibarita, con padre e madre nativi di Civita, compositore che ha ottenuto 11 candidature all’Oscar e tre vittorie tra il 1935 e il 1946.

Al calare del sole, da quei primi rilievi collinari, contemplo la piana di Sibari fino alla sua costa, e sopra di me le nuvole sono basse, si muovono e mutano colore. La sera ci tengo a incontrare il sindaco, Gianni Papasso, uomo coraggioso e libero che amministra un territorio ricco e complesso. Il suo intento è annullare ogni distinzione, e con ciò ogni barriera, tra i saperi e i mestieri di quelle terre: l’intellettuale, l’artista, l’artigiano e il contadino devono potersi riconoscere ugualmente in un’identità sibaritica.

Unire le energie e l’azione con le forze della storia e del pensiero significa seguire un destino che accomuna queste genti, le loro generazioni e i loro futuri figli. «Chi, se potesse, non vorrebbe vivere tanto a lungo da vedere cosa verrà alla luce a Sibari?», diceva lo scrittore inglese Norman Douglas. Perché un reperto immaginato è anche il simbolo di un’attesa comune, che vale per tutti, anche per il viaggiatore che giunge qui, nel cuore della Magna Grecia.