Nel mio peregrinare in giro per l’Italia mi capita spesso di incrociare realtà sorprendenti e di ragionare su quanto sia importante, per una comunità e per il futuro di un territorio, non solo la visione ma anche la perseveranza. Parlo spesso della “restanza”, il diritto a restare ma soprattutto a partecipare ai processi del luogo in cui si vive, per disegnare il percorso verso un vivere felice. Ne è un esempio l’esperienza che ho vissuto ad Aielli, uno dei comuni più alti dell’altopiano del Fucino, nella Marsica, scoperto in maniera davvero casuale.

Con Linea verde ho raccontato una delle realtà agricole più importanti del Paese che si trova nella zona del Fucino, in Abruzzo, dove c’era il terzo lago più grande della nazione. A causa dell’assenza di emissari e delle repentine variazioni del livello dell’acqua, che provocava inondazioni o malsane secche, questo specchio d’acqua fu prosciugato artificialmente.

 

Nella piana oggi si coltivano soprattutto ortaggi come finocchi, patate e carote. Dopo aver visitato un’azienda all’avanguardia che produce proprio finocchi, vengo invitato a cena ad Aielli, località a 650 metri sul livello del mare, circondata a nord dalla catena montuosa del gruppo del Sirente.  Il paese è adagiato su uno sperone roccioso calcareo ed è circondato, sia a est sia a ovest, da due torrenti che convergono entrambi nell’ex alveo del lago del Fucino. Prima di andare a mangiare decido di farmi un giro, sorpreso dal numero di gente per le strade, tra cui molti turisti con zaino sulle spalle. Mi incammino verso una spettacolare costruzione medievale chiamata Torre delle stelle e divenuta un importante osservatorio astronomico aperto al pubblico con annessi il Museo del cielo e una biblioteca scientifica.

 

Camminando, vedo opere d’arte ovunque, disegnate sui muri delle case da artisti di tutte le parti del mondo: è come passeggiare in un museo a cielo aperto, è una sensazione incredibile. Capisco che c’è un progetto perché è tutto piacevole e in armonia. Incrocio gli sguardi dei turisti estasiati dalla gioia dei colori e dalle forme disegnate e penso che un futuro possibile esiste nei nostri paesi.

Murales di Aielli (L'Aquila)

Murales di Aielli (L'Aquila)

Si è fatta ora di cena, raggiungo il ristorante Al castello dove il titolare Ugo è un’istituzione, un vero oste custode. A tavola siamo in tanti, c’è una bella atmosfera e dopo un brindisi e un antipasto di salumi, formaggi e “cacio e ova”, mi fanno assaggiare la pasta alla chitarra, tipica abruzzese, con guanciale, pecorino e orapi. Il piatto nasce dopo una lunga ricerca su questa rara graminacea di montagna che nasce quasi esclusivamente dove stazzano le pecore, perché il seme riesce a germogliare più facilmente una volta digerito dagli ovini.

Si è fatto molto tardi ma la voglia di vedere tutti i murales è tanta e ricomincio a girare per i vicoli imbattendomi in chiese e palazzi con facciate dipinte. Torno verso il centro e la mia attenzione viene catalizzata da un’impalcatura appoggiata sulla parete della casa comunale, con una ragazza sopra il terzo livello che sta realizzando un’opera di street art. Cerco di capire cosa sta disegnando e le chiedo informazioni. Lei si volta e vedo che indossa una maschera bianca e una parrucca rossa sotto un cappuccio di felpa nera. Poi mi dice: «L’opera di chiama Mafia sucks e il poster raffigura Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia Santino, ucciso e sciolto nell’acido da esponenti mafiosi l’11 gennaio del 1996». E aggiunge: «Come diceva Giovanni Falcone “chi tace e piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e cammina a testa alta, muore una sola volta”». Giuseppe è ritratto sul suo cavallo, mentre festeggia la cattura del superboss mandante del suo omicidio, Matteo Messina Denaro, detenuto nel carcere abruzzese in regime 41 bis. Non riesco a incrociare gli occhi della ragazza in piedi sull’impalcatura ma scopro che si chiama Laika 1954 ed è una street artist romana che ama definirsi “attacchina” o “poster artist” perché affigge le sue opere sul muro.

La street artist Laika

La street artist Laika

Le chiedo come mai ha scelto questo nome. «È un richiamo alla cagnolina Laika andata sulla luna. Ma nella grafica c’è anche un riferimento piuttosto evidente al logo alla Leica, la famosa macchina fotografica. La scelta è legata al concetto di voler puntare allo spazio, di non porsi mai dei limiti». Laika ha deciso di non svelare la sua identità perché l’anonimato le garantisce una maggiore libertà espressiva. Indossa una maschera bianca che rappresenta l’assenza di filtri precostituiti, una tela vuota su cui dipingere di volta in volta ciò che vuole. Anche se non vedo il suo volto, credo comunque di aver instaurato una relazione con l’artista. Oppure è semplicemente riuscita nel suo intento di farmi riflettere sull’opera e non su di lei. 

Laika si ferma, china il capo verso di me e aggiunge: «La street art esiste da sempre, dai pittogrammi nelle caverne ai murales di oggi, insomma c’è un’esigenza chiara dell’uomo di voler comunicare». E questa volontà si può esprimere in qualsiasi forma. Poi riprende a lavorare e io ripenso alle sue parole, al suo definirsi “un’attacchina”. La osservo e credo che ci sia un forte legame con la praticità del rituale e dell’azione dell’attacchinaggio. Un gesto ripetuto per ogni suo murale, una sorta di etica del lavoro, come se volesse dare forza, opera dopo opera, ai messaggi diretti su temi sociali. E, non a caso, come parte del suo look ha scelto i tipici pantaloni arancioni da operaio.