La statale 74 Maremmana taglia l’interno della provincia grossetana e, dopo aver costeggiato il santuario della Madonna delle Grazie, dove si respirano arie quattrocentesche, porta fino a Pitigliano. Dopo una curva a gomito, il borgo issato su un grande masso appare improvviso come un sorgere miracoloso nel tufo di fronte ai turisti provenienti da tutto il mondo. Siamo in una terra di confine dove, secoli addietro, la Tuscia viterbese e la bassa Maremma vennero a confondersi. Un luogo in cui si sarebbero mescolate pacificamente religioni, culture, arti. Tanti gli elementi importanti che distinguono Pitigliano dalle altre bellezze limitrofe o più distanti, capaci ognuna di lasciare in questa regione segni di incanto. Basti solo citare i borghi di Saturnia, Magliano, Sorano, Sovana, Montemerano, Capalbio. La Maremma è un atto unico, l’interludio di un paesaggio rinascimentale in cui la vita si manifesta in segni di pura armonia.

 

Pitigliano, invece, è il simbolo di una civiltà antica e di una comunità moderna fortissima. Claudia Elmi, assessore comunale al Turismo, commercio e attività produttive, è la prima ad accogliermi e ad accompagnarmi dal municipio, lungo l’imponente acquedotto mediceo, fino a piazza San Gregorio VII dove la sera è possibile cenare da Ceccottino, 20 anni di ricerca nella tradizione gastronomica. Da lì, tra aneddoti e lampi di cultura, Elmi mi guida verso piazza Becherini per contemplare una veduta di rara poesia sulla vallata. Alle spalle, per intero, questo paese senza tempo e nel suo tempo immerso. Chiamata città del tufo o anche piccola Gerusalemme, prima frontiera liberata dal potere papalino, Pitigliano è una citazione della differenza che corre tra la Maremma e quelle vaste terre toscane che per Dante erano estese da Cecina fino a Corneto (l’attuale Tarquinia, nel Lazio).

 

Chilometri di territorio che, in un tempo non lontanissimo, erano laghi e paludi dal clima insalubre, dove regnavano zanzare anofele e malaria. In Maremma abitavano poche migliaia di persone, magari sopravvissute o resistenti alla malattia, da cui Pitigliano era esente, isolata com’era su una collina baciata dalla sorte e da aria sana e respirabile. Di questo e altro prende a raccontarmi Angelo Biondi che, per decenni, ha insegnato storia e lettere ai ragazzi del paese, partendo dalla storia locale e contribuendo a forgiare in loro un’identità cittadina. Passeggiando insieme tra le vie, non fa che incontrare generazioni di ex allievi che nel salutarlo mai dimenticano di chiamarlo professore. 

Pitigliano

Mi racconta Angelo della Pitigliano controllata dalla famiglia medievale degli Aldobrandeschi, poi del periodo basilare degli Orsini e, ancora, del dominio mediceo fino ad arrivare ai Lorena. Ma dalla sua erudizione mai trapela il destino di una città sotto il giogo di nobili e stranieri. Nulla sarebbe più falso. Perché nel ‘500 Pitigliano era addirittura contea e Stato sovrano, ebbe voce nel trattato di pace di Cateau-Cambrésis, che pose fine alle guerre d'Italia tra la Francia e gli Asburgo di Spagna e Austria, e fu teatro di una storica accoglienza della comunità ebraica. A metà del XVI secolo, infatti, il conte Niccolò IV Orsini donò al medico e linguista David de Pomis un terreno cimiteriale e, trascorso qualche decennio, fece innalzare una sinagoga, ancora oggi in ottimo stato. Con l’istituzione del ghetto in grotte di tufo (tuttora visitabile), la comunità ebraica crebbe fino a costituire un ottavo degli abitanti. Da lì la nomea di piccola Gerusalemme e il forte legame di questo popolo con la cittadinanza di Pitigliano. Eroica e inesausta fu infatti la protezione che i pitiglianesi offrirono agli ebrei durante gli anni delle leggi razziali e in quelli delle deportazioni. Nessuno di loro finì nei campi di sterminio e fu giustiziato.

 

Oggi il quartiere ebraico, con il suo piccolo museo e i dedali di stradine in discesa è tra le zone più caratteristiche del centro storico. Valerio Lupi, fotografo che si definisce amatoriale, ha raccolto i suoi scatti in un alfabeto di voci verbali per raccontare la grandezza immaginifica della “maremmanità”, cioè dell’attitudine a curare la propria distanza dalle cose del mondo, unita alla propensione a raccontarsi attraverso visioni fantastiche. Uno dei verbi citati da Lupi – viaggiare – mi fa venire in mente una frase del filosofo statunitense Ralph Waldo Emerson: «Vai dove il sentiero non c’è ancora e lascia dietro di te una traccia». Quasi a evocare le vie cave di origine etrusca della cittadina, una passeggiata lunga 10mila metri andando e tornando dalla via Selciata fino a piazza Garibaldi. Alla sera, prima di chiudere gli occhi sulla vallata, è consigliato sfogliare qualche pagina del libro I minatori della Maremma, di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola, l’uno nativo di Grosseto, l’altro adottato, che dedicarono un’inchiesta e un omaggio commoventi alle 43 vittime della sciagura di Ribolla, altra frazione di questa provincia affascinante: «Un’esplosione spaventosa; avevano visto una gran nube di fumo uscire dalla bocca del pozzo […]».

 

Era il 1954, il cuore della Maremma si fermò dinanzi a quella sofferenza per la morte di tanti lavoratori in miniera, poi riprese a battere tra quelle dolci colline. Ogni anno, il terzo fine settimana di agosto, per la Festa della contea di Pitigliano, in tanti tornano nel borgo del tufo per riascoltare i racconti di un tempo, dal Rinascimento in poi. Magari in quei giorni può capitare di incontrare anche Marcello Baraghini (l’inventore della collana Millelire), che a Pitigliano ha ritrovato la gioia di fare l’editore indipendente aprendo una libreria, felice e più libero di sempre.

 

Articolo tratto da LaFreccia