In apertura una panoramica di Bolzano
Vi sono luoghi dove coabitano due realtà: una scritta dalla storia, l’altra dalle genti. È il caso di Bolzano, oggetto di un trattato che nel primo dopoguerra la popolazione subì con rabbia e stupore. Anni trascorsi senza accettare un cambiamento traumatico, quello di essersi addormentati austriaci per svegliarsi italiani. S’immagina ancor oggi, quindi, che entrare in Alto Adige significhi in qualche modo percepire il peso di un secolo difficile, per via del complicato processo attraverso cui il territorio fu annesso all’Italia nel 1920. Ma, una volta arrivati, si comprende che in quei luoghi superbi ormai si vive un tempo diverso.
Con questa premessa ha inizio, tra gli angoli sorprendenti della città, una narrazione che non mi aspetto, un mescolarsi di tradizione e modernità, di lingue e costumi, di paesaggi e di vite. È la Bolzano che con gli anni è diventata terra di dialogo e di soluzioni. Appena sceso dal treno, fuori dalla stazione, mi stupisco nel ritrovarmi già nel cuore della città. Bolzano si apre subito al visitatore, sin dai suoi primi passi, e in effetti bastano poche centinaia di metri per affacciarsi nell’ottocentesca piazza Walther, fulcro urbano che tutti ricordano per i mercatini natalizi e quasi nessuno per il nome del poeta medievale a cui essa è dedicata, Walther von der Vogelweide,
famoso per le liriche amorose: «Per ben 40 anni, o forse più, ho cantato l’amore e come bisognerebbe vivere». Nel dare le spalle alla sua statua mi lascio tentare da una visita al duomo, sorto sui resti di una basilica paleocristiana del VI secolo. Di esso m’incantano la potente verticalità e l’altare maggiore di Jacopo Antonio Pozzo, architetto e carmelitano scalzo. Le linee tardo-gotiche rapiscono l'immaginazione
dei visitatori.
Duomo di Bolzano © Vivida Photo PC/AdobeStock
Fuori, un centinaio di metri distante dalla chiesa, eccomi in Goethestrasse, così rinominata nel 1901 per onorare il viaggio in Italia del grande scrittore tedesco che, nel 1786, soggiornò nella città altoatesina: «Giunsi a Bolzano con un bel sole allegro.
La vista di tutti quei volti di mercanti mi piacque. In piazza erano sedute le fruttivendole con le loro ceste rotonde e piatte». Cosa rimane di un resoconto tanto poetico e di quei personaggi antichi? La sensazione è che il passato sia un bagaglio non troppo pesante e che germanofoni e italiani abbiano interiorizzato la loro identità. Ciò basta al visitatore per comprendere non soltanto che l’architettura e i passaggi urbani qui parlano un’altra lingua, ma che tra vicoli e strade resta preziosa
la memoria di nomi, di fatti e di opere le cui origini, fuor di confine, ancora sono vive. Questo grazie all’impegno di studiosi del territorio come Karl Theodor Hoeniger, che ha il merito di aver censito le case del centro storico tra il XV e il XVI secolo.
Il Café Riesen è il luogo ideale dove gustare il dolce perfetto; da lì sono due passi per giungere in Laubengasse, via dei Portici, già cuore dei commerci medievali. Al civico 41 si trovano le vetrine della libreria Athesia gestita da Silvia Maranelli che, su Bolzano, ha le idee molto chiare. A suo parere, il segreto per far funzionare una convivenza difficile fu risolvere i problemi dissolvendo i motivi che li avevano causati. «Il caso di Bolzano dimostra che le differenze e le distanze si possono superare. A ripensarci non c’era nulla di più diverso tra le attitudini montanare e sudtirolesi e i caratteri mediterranei e italiani. Ma a un certo punto si sentì che non c’era più voglia di combattersi in nome di localismi antiquati, era meglio parlarsi.
Ecco, il miracolo di questa città è stato l’incontro tra due culture».
Piazza Walther © gabriffaldi/AdobeStock
Ai prati del Talvera, il parco cittadino, saluto Hannes Obermair, medievista,
germanista e storico delle regioni. Mi racconta di essere cresciuto con una madre bolzanina che bene parlava l’italiano e un papà originario della Val Pusteria, fatto che, invece di chiuderla, aprirà la sua mente a un’esperienza senza barriere. «Mi sento un apolide della cultura, nato in Italia ma di lingua tedesca, come se questi differenti destini si siano incontrati dentro di me». Quando domando a Obermair
a cosa si dovette la trasformazione di Bolzano, lui risponde deciso: «Non ho dubbi in proposito, alla svolta autonomista del 1972, frutto di una politica italiana che allora era di grandi vedute e di alto livello». Gli chiedo di regalarmi i nomi di uno scrittore e di un pittore che abbiano illuminato le lettere e le arti sudtirolesi. Mi parla di Joseph Zoderer, stimato da Claudio Magris, con il quale firmerà un libro, e autore dello splendido romanzo breve L’«italiana», che inizia da un urlo e termina in un bacio solitario. Poi cita il venostano Karl Plattner, grande pittore di figura del '900. Ogni sua opera, dirà il gallerista Ennio Casciaro, rimarrà unica e irripetibile. Prima di salutarci Obermair m’insegna un’ultima cosa, che sarebbe un peccato immaginare Bolzano senza le sue due cittadine sorelle: Merano, cosmopolita, multireligiosa e colta; Brunico, economa e produttiva. Parte della stessa provincia autonoma, simbolo dell’incontro tra tedeschi e italiani che un giorno decisero di stringersi la mano.
Articolo tratto da La Freccia