Alison Stigora, Seme (2016), Arte Sella, Borgo Valsugana (TN)

 

Che il seme sia un simbolo universale di vita e rinascita è cosa risaputa. Ma tradotto in un’opera d’arte come il grande Seme di Alison Stigora ci porta oltre con il pensiero e l’immaginazione.

 

Costruita con l’impiego di legno bruciato, quest’opera della giovane artista statunitense richiama infatti l’elemento della nuova nascita dopo la distruzione e la morte. È un contenitore che custodisce il passato e, allo stesso tempo, ha già in sé la progettualità del futuro imminente. Come recita un detto indiano, «il seme proviene dalla pianta che non vedi più, e porta in sé quella che non vedi ancora». Dobbiamo rinascere anche noi dopo la pandemia da Covid-19, e l’arte contemporanea ci può ispirare per un domani migliore. Arte che qui vi proponiamo in un tour inedito attraverso luoghi e borghi da nord al sud del Belpaese, tutti da scoprire (o riscoprire) in presenza appena l’emergenza sanitaria in atto lo consentirà.

 

Il viaggio parte proprio dallo scrigno di arte e natura che racchiude anche il Seme di Stigora. Il suo nome è Arte Sella  a Borgo Valsugana (TN), in Val di Sella, una sede espositiva permanente a cielo aperto dedicata all’Art in Nature, con una bella storia di distruzione e rinascita, di ottimismo. Perché Arte Sella nasce nel 1986 all’indomani della tragedia di Chernobyl, quando un gruppo di amici residenti a Borgo Valsugana si ritrova nel giardino di Villa Strobele a immaginare di coniugare arte contemporanea e natura, avvertendo l’esigenza di ristabilire un nuovo equilibrio con l’ambiente.

Da allora questo progetto di strada ne ha fatta, sotto la direzione artistica di Emanuele Montibeller, grazie anche a importanti collaborazioni con maestri quali, per citarne solo alcuni, Nils-Udo, Arne Quinze, John Grade e Michelangelo Pistoletto. Una volta individuato lo spazio e ideato il progetto, gli artisti ad Arte Sella creano utilizzando materiali naturali e consegnano la loro opera alla natura. È continua, pertanto, la mutazione di questi lavori, trasformati dalle condizioni atmosferiche e dallo scorrere delle stagioni, fino a ritornare alla natura stessa che li ha ospitati, al termine del loro ciclo vitale.

 

Circa 50 sono le opere visibili lungo i due percorsi di questa “montagna contemporanea”. Uno ha inizio a Villa Strobele dove, presso il giardino, si trova una prima parte di opere, in particolare la sezione dedicata all’architettura, con installazioni nate dalla collaborazione di architetti di fama internazionale come Kengo Kuma, Eduardo Souto de Moura, Michele de Lucchi e Stefano Boeri, grazie alla partnership con il Politecnico di Milano.

Al termine della valle, invece, Arte Sella accoglie i propri visitatori presso l’area di Malga Costa. Qui, intorno all’edificio della malga, si dipana un percorso contrassegnato da alcune tra le opere più monumentali e note al grande pubblico: la Cattedrale vegetale di Giuliano Mauri, il Terzo Paradiso - La trincea della pace di Michelangelo Pistoletto, Simbiosi di Edoardo Tresoldi, Radice comune di Henrique Oliveira e il Trabucco di montagna di Arne Quinze.

Cédric Le Borgne, La donna invisibile (2018), Arte Sella, Borgo Valsugana

Cédric Le Borgne, La donna invisibile (2018), Arte Sella, Borgo Valsugana

Dal Trentino sudorientale ci spostiamo in Piemonte, nel Roero, tra le Langhe e il Monferrato, dove su un colle svetta il borgo di Guarene  (CN), un epicentro internazionale del collezionismo d’arte. Qui ha avuto inizio, infatti, la straordinaria storia della signora del collezionismo italiano, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, impegnata da oltre due decenni a condividere e diffondere l’arte contemporanea e a sostenere gli artisti più giovani e promettenti. È nelle sale di Palazzo Re Rebaudengo, residenza settecentesca di famiglia, che la sua rinomata Fondazione ha visto la luce nel 1997, quando trovano posto, grazie al suo fiuto da talent scout divenuto ormai proverbiale, opere di artisti che di lì a poco avrebbero conquistato il panorama internazionale. Un nome fra tutti, Maurizio Cattelan, di cui Patrizia Sandretto acquista nel 1996 Bidibidobidiboo, il surreale suicidio di uno scoiattolo tassidermizzato mentre è seduto al tavolo della cucina (il titolo si riferisce alla canzone cantata dalla fata madrina in Cenerentola).

 

Da quel lontano 1997 la Fondazione è partita alla conquista di Torino e, poi, del resto del mondo. Ma la sede di Guarene ha proseguito la sua attività senza soluzione di continuità. Il Palazzo è stato ripensato come centro espositivo dagli architetti Corrado Levi, Alessandra Raso e Alberto Rolla sulla base di un progetto che ha rispettato l’impianto architettonico originario. Nel 2006 sono stati ultimati l’ampliamento dell’area espositiva dedicata alle mostre e alle iniziative del dipartimento educativo e l’ala destinata alle residenze, a partire da quelle rivolte a curatori stranieri. Sempre nel borgo piemontese, tra i rinnovati vitigni di Nebbiolo sulla collina di San Licerio, dal 2019 Patrizia Sandretto promuove anche un inedito programma d’arte contemporanea, con l’installazione di sculture di grandi dimensioni commissionate ai giovani artisti più promettenti sulla scena internazionale, assegnando la prima committenza a Paul Kneale. A giugno 2021 verrà inaugurata una nuova fase del progetto, con la presentazione dell’intervento di landscape architecture, l’installazione di una serie di sculture della sua collezione e lo svelamento di un nuovo lavoro site-specific concepito dall’artista francese Marguerite Humeau.

Remo Brindisi, Figure, frammento dello strappo (1973), Dozza

Remo Brindisi, Figure, frammento dello strappo (1973), Dozza

Comincia la nostra discesa lungo lo Stivale per fare tappa nel borgo medievale di Dozza, a sud di Bologna, che adagiato sul crinale di una collina tra boschi e vigneti domina la valle del fiume Sellustra. Qui l’arte si incontra sui muri. Dal 1960, infatti, proprio a Dozza si svolge il Muro dipinto, manifestazione trasformata in biennale dal 1965, che ha dato vita, nel corso del tempo, a una vera e propria galleria d’arte a cielo aperto lungo le vie dell’antico borgo, non a caso riconosciuto come uno tra più belli d’Italia. Dagli anni ‘60 a oggi sono oltre 200 gli artisti che ne hanno dipinto i muri, tra cui Sebastian Matta, Bruno Saetti, Giuseppe Zigaina, Concetto Pozzati, Remo Brindisi e, più recentemente, Bruno Ceccobelli, Luca Alinari, Omar Galliani. Dal 2007 il Muro dipinto è stato esteso anche alla frazione di Toscanella, dove si dà spazio ad affermati writer e street artist: Ericailcane, Eron, Dado, Basik, Cuoghi Corsello, Rusty, Joys, Moneyless, Hemo, Paper Resistance.

 

Da alcuni anni Dozza è divenuta anche un punto di riferimento per quanto riguarda il genere fantasy: nel 2016 è “nato” il drago Fyrstan, un’enorme installazione, unica nel suo genere, che trae ispirazione da leggende locali del XVII e XVIII secolo. Il drago è visibile mentre riposa all’interno della torre della Rocca, ma ogni due anni, in occasione della biennale d’illustrazione FantastikA, apre gli occhi e risveglia il fuoco della fantasia, attirando migliaia di appassionati da tutta Italia che accorrono per vederlo da vicino. Oltre a FantastikA e al drago Fyrstan, Dozza vanta pure il centro studi La tana del drago dedicato al professore di Oxford e padre della letteratura fantasy J.R.R. Tolkien. Il centro è ancora in fase di allestimento, ma le mostre e le collezioni tolkieniane sono già pronte a ricevere il pubblico.

Hugo Canoilas, God is good and the devil is not bad (2015), Ficarra (ME)

Hugo Canoilas, God is good and the devil is not bad (2015), Ficarra (ME)

Lasciamo alle nostre spalle il continente per approdare in Sicilia e fare tappa nel messinese, a Ficarra, un borgo medioevale eretto a 450 metri d’altezza sulle pendici nord della catena dei Nebrodi, a soli cinque chilometri da uno dei tratti più belli della Costa Saracena, compreso tra il comune di Gioiosa Marea e quello di Capo d’Orlando.

 

Qui, nell’ambito dell’ampio museo diffuso cittadino, sorge un luogo denso di fascino e storia, immerso in un’atmosfera fuori dal tempo che da anni ospita in residenza straordinari artisti provenienti da ogni parte del mondo. Si tratta del seicentesco Palazzo Milio, con la sua Stanza della Seta  affacciata su una terrazza che domina il paese, mentre sullo sfondo si stagliano le isole Eolie. È il luogo che ricostruisce gli ambienti familiari del poeta siciliano del ‘900 Lucio Piccolo, storicamente legato a Ficarra e cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che qui ha scritto una parte significativa del suo Gattopardo.

 

La Stanza della Seta diviene foresteria per gli artisti in residenza, che cominciano questa loro esperienza senza eguali dalla meditazione-interazione con il piccolo paese nebroideo, la sua storia e i suoi abitanti. Tra gli ospiti figurano autori di fama internazionale come Massimo Bartolini, Urs Lüthi, Ute Müller, Christoph Meier, Nicola Pecoraro, Lois Weinberger, Hugo Canoilas, Rä di Martino. Sono molti i ricordi e gli aneddoti degli artisti che qui si sono succeduti secondo Mauro Cappotto, assessore di Ficarra e anima storica di questo progetto. «Penso all’ironia di Lüthi, alla generosità di Giacomo Rizzo, alla grande capacità di lettura delle cose e degli eventi di Bartolini, venuto a Ficarra per una breve collaborazione con Palazzo Riso Museo d’arte contemporanea della Sicilia, che ha poi attivato rapporti con artigiani locali duraturi nel tempo. Oppure mi tornano alla mente le strane richieste ricevute, per esempio, dal portoghese Canoilas, che ha voluto una tela di 200 m2 per dipingere la copertura dei resti architettonici di un’antica chiesa a cielo aperto, o da Peppe Lana, che ha collocato un peschereccio all’entrata del paese ricoprendolo di piante donate dai residenti. Ogni artista ha una storia di intrecci e connessioni che rimarrà a eterna memoria della nostra comunità», mi riferisce Cappotto.

 

Ficarra, pertanto, è un saldo e virtuoso esempio di luogo che rinasce e si rigenera con l’arte contemporanea, attraverso cui recuperare memoria, rafforzare l’identità collettiva e riscoprire valori di comunità e di appartenenza.

 

Tutto questo era ben chiaro già decenni fa a Maria Lai (1919-2013), una delle voci più singolari dell’arte italiana dal secondo dopoguerra in poi, che ci conduce all’ultima meta del viaggio, nel cuore dell’Ogliastra, nella sua Ulassai  (NU). All’epoca un piccolo centro della Sardegna quasi sconosciuto nelle guide turistiche, dove gli abitanti sono spesso in allarme tra alluvioni, siccità e montagne che franano distruggendo case e spezzando vite. La piccola comunità, che vive di pastorizia oppure emigra in Argentina, è isolata, divisa tra rancori e pettegolezzi, storie di malocchio e piccoli furti.

 

E forse proprio in questo paesino sardo, per dirla con le parole di Filiberto Menna, il grande sogno dell’arte contemporanea di cambiare la vita si è realizzato, dove invece la religione e la politica hanno fallito. Complice il genio di Maria Lai, che ha aiutato la gente a liberarsi della parte distruttiva di sé in un rito catartico comunitario nel quale un’antica leggenda del luogo, tramandata di madre in figlio, diventa vita vissuta, per aprirsi allo spirito di amicizia e collaborazione.

 

Il progetto debutta l’8 settembre 1981, quando un nastro di tela jeans celeste lungo 26 chilometri, portato fin sulla cima della montagna da tre scalatori, scende per attraversare e legare tutte le case del paese, nessuna esclusa.

Si stabilisce un codice affinché il passaggio del nastro riveli i reali rapporti tra le famiglie: un nodo tra le porte delle case i cui abitanti sono legati da amicizia e nessun nodo se non c’è, oppure un pane delle feste sospeso al nastro tra una casa e l’altra per indicare la presenza dell’amore. Da quel lontano 1981, gli interventi sul territorio di Maria Lai si sono susseguiti con continuità fino a trasformare il piccolo centro natio nel suo più grande capolavoro. Opere che vengono mutate nell’aspetto giorno dopo giorno, nei colori e nella percezione visiva, da quella natura aspra e vigorosa che sembra diventata la longa manus dell’artista dall’aldilà. Che aveva previsto anche questo, come raccontano le maestranze del luogo.

 

Oggi Ulassai è un paese benestante, dove l’economia agropastorale è stata sostituita dalla green economy delle energie rinnovabili, dai cantieri forestali per il rimboschimento e dall’indotto del turismo (le sue grotte di Is Lianas e Su Marmuri sono tra le più estese d’Europa). Ma qui ancora ogni angolo parla di Maria Lai, come se non se ne fosse mai andata. Sono moltissimi coloro che l’hanno conosciuta, anche tra i più giovani. E sono numerose le case private che ospitano le tracce del suo lavoro, perché Maria (come la chiamano affettuosamente) era molto generosa con tutti. Sono soprattutto i luoghi dei suoi interventi ambientali a parlarci di lei. Dal Telaio-soffitto alle Capre cucite, dalla Strada del rito alla Scarpata, dai pensieri sull’arte di via Venezia alla Casa delle inquietudini, dalla Via Crucis (all’interno della chiesa) al Gioco del volo dell’oca, dal Muro del groviglio al Pastorello mattiniero, dalla Cattura dell’ala del vento alla Lavagna.

 

Fino alla Stazione dell’Arte, un museo di arte contemporanea che sorge nei locali dell’ex stazione ferroviaria, posta a valle del paese, inaugurato nel 2006 in seguito alla donazione da parte dell’artista di un corpus di oltre 150 sue opere.

 

Questa mappa di luoghi evocativi, dove arte e vita si intrecciano indissolubili come i fili colorati di un ricamo, diviene un attualissimo manifesto sul concetto di comunità, sulle modalità per costruirla e consolidarla che vadano oltre l’individualismo e gli interessi specifici. E risulta allora ancora più evidente (e forse è la vera sfida etica e politica attuale), in un mondo come quello odierno, diviso e in pezzi, frantumato, spaccato per nazioni, razze, sopraffatto dalla pandemia e rivolto al passato, come sia possibile attraverso l’arte realizzare quello spazio indispensabile delle relazioni per una effettiva rinascita. La stessa che Maria Lai ha materializzato e reso visibile con i suoi fili e nastri colorati.

Articolo tratto da La Freccia gennaio 2021