Un sistema di allevamento del vitigno tradizionale della provincia di Caserta che prevede di “maritare” le viti con piante di alto fusto, in particolare i pioppi, che risale al tempo degli Etruschi.
L’antica tecnica viticola consente ai tralci di arrampicarsi fino a 12 metri di altezza per allontanarli dai miasmi di terre acquitrinose. Questo sistema si alternava a quello dei romani della falanga nelle fertili pianure della “Campania Felix” ed è arrivato fino ai nostri giorni, ancora eseguito nella medesima modalità. I viticoltori salgono con il tipico “scalillo” per lavorare l’uva, una scala realizzata su misura per ciascun vignaiolo con la distanza tra uno scalino e l’altro misurata sull’altezza della persona che, in modo decisamente eroico, poggia il ginocchio per raggiungere i grappoli, avendo le mani libere.
La piante gestite in questo modo danno vita a grappoli d’uva dei che donano al vino una decisa acidità e sentori olfattivi e degustativi di grande carattere.
Nel corso del tempo l’Asprinio di Aversa, ha sempre trovato grande apprezzamento.
A partire da Plinio il Vecchio, il quale, coltivava, produceva e vendeva vino delle “alberate” aversane. Anch’egli ne descriveva la difficoltà di coltivazione mettendo in guardia i proprietari del rischio di coltivare l’uva a quelle altezze.
Paolina Bonaparte scriveva al fratello Napoleone della bellezza di quella che definisce “una terra promessa” e lo invita a percorrere a cavallo l’enorme distanza di tremila chilometri per godere di tanta meraviglia. I Borboni avevano molto a cuore l’alberata ed ebbero una grande intuizione di marketing, commissionando ad artisti importanti. quadri che rappresentassero proprio l’alberata.
Una sorta di cartolina ante litteram, dipinti dove la “vite maritata” sposa proprio un pioppo.
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Grande estimatore dell’asprinio su anche Papa Paolo Terzo Farnese che istituisce per primo la figura del bottigliere papale che affidò a Sante Lancerio. Di fatto il primo sommelier della storia, che aveva il compito di scegliere e abbinare i vini per il Papa.
Un vino che ha avuto grande successo nella storia della gastronomia, costava poco ed era molto apprezzato.
Nel 1787, Johan Wolfang Ghoete nel suo “Viaggio in Italia” cita il “suolo terso, deliziosamente soffice e ben lavorato, vini d’eccezionale altezza e robustezza con tralci fluttuanti di pioppo un pioppo a mo’ di reti”. E nel 1835 è il francese Aubert de Linsolas a citare nel suo “Souvenirs de l’Italie” i rami della vite intrecciati a grandi alberi, dando l’immagine di archi trionfali.
Fino ad arrivare al 1963 quando Paolo Monelli autore de “Il vero bevitore” descrive così l’Asprinio “non è un vino, è un’idea, un’evocazione, un fantasma… è luce, roccia, sale e profumo di limone in essenza distillata, senza peso e senza materia”.
A sua volta Luigi Veronelli ne celebra la qualità “Quando l’ho bevuto mi sono emozionato” e sostiene la necessità di valorizzarlo e non permettere che scompaia.
Questa storia affascinante è tratta dal libro “Asprinio di Aversa - Racconto di un matrimonio felix di 3000 anni fa” scritto dal professor Michele Scognamiglio, specialista in Scienza dell’Alimentazione, Biochimica e Patologia Clinica, con prefazioni di Peppe Vessicchio e Antonio Medici, edito da Cuzzolin.
La raccolta delle uve è solo manuale, non si potrebbe fare altrimenti dato l’utilizzo dello “Scalillo”.
Il colore è giallo paglierino, al naso spiccate note agrumate, appena accennate quelle floreali e fruttate. Sorprendente la persistenza gustativa che esalta le acidità.
Abbinamento perfetto con la mozzarella di bufala per restare nel territorio, ma l’Asprinio è altrettanto in grado e con grande eleganza, di accompagnare il contemporaneo Sushi.
L’Asprinio è stato inserito nel novero dei vitigni del progetto “Brigata Verderame” di Bio Cantina Orsogna, che ha incluso in questo caso il vigneto, valorizzando, come nel caso delle produzioni dell’Abruzzo e della Sicilia, la tradizione unica e preziosa del territorio e della vite. Come nel caso degli altri vitigni anche questo vino ha un’etichetta personalizzata con un disegno evocativo e un nome altrettanto intrigante “lu Pazzariell, u prufssore de lu scalill”. La firma enologica, anche in questo caso è del dottor Camillo Zulli, “chef de cave” di Bio Cantina Orsogna.
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